“L’assassino”, la prima nevrosi di Elio Petri

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Titolo originale: L’assassino
Regia: Elio Petri
Soggetto e sceneggiatura: Elio Petri, Tonino Guerra, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa
Cast principale: Marcello Mastroianni, Salvo Randone, Micheline Presle, Cristina Gaioni
Nazione: Italia
Anno: 1961

Può un’opera prima, giovanile e già matura, rivelarsi un prezioso crogiuolo in cui risuonano tutti gli accordi, le variazioni, la forza espressiva di un autore? L’assassino (1961) sta qui a dimostrarlo. Realizzato da un Elio Petri trentaduenne, sommerso da cumuli di prodotti più o meno ottimi (nell’ipertrofica congerie della cinematografia nostrana, segnata – all’epoca – da una ‘concorrenza’ spietata) il film mostra in filigrana le tracce di una visione sfrangiata, capace di incrinare la superfice apparentemente salda del quotidiano. Tipico del cineasta, naturalmente altro rispetto ai tempi, avulso da logiche di mercato e dall’inserimento in cori obbligati, tesi alla narrazione di una società sghemba e mutata, incapace di accettarsi.  

Tra cinismo e inganno

Costruita come un lungo incubo, striato di flash e partizioni memoriali, l’opera conserva una sua linearità restituendo, per tratti essenziali, i nodi irrisolti della vita del protagonista. Individuo cinico e corrotto, colpevole – al di là dei fatti – di un dis-umano modo di vedere, l’antiquario Alfredo Martelli (Marcello Mastroianni) è uno spietato figlio del boom, campione di un’umanità rispettabile, che pacifica e rasserena. Accusato, in apparenza senza ragioni, di aver ucciso la facoltosa amante (Micheline Presle), Martelli è un mezzo di indagine, lo spettro scelto da Petri per perturbare l’azione.

Tutta la storia si svolge sotto la sua pelle, nei movimenti nervosi delle braccia, nell’incavo delle rughe sottili come linee di demarcazione. Inganna Martelli, nasconde frammenti di un passato mellifluo, via via incancrenito dall’arrivismo dispeptico, che travalica il passato nobile – non a caso passivo, ‘mediato’, come dimostra l’episodio del nonno antifascista – e converge nell’horror vacui del suo oggi. Manipolatore senza scrupoli, mantenuto da donne devote e circuite, il protagonista è il fulcro di un racconto destrutturato, un gioco di scatole senza fondo, in cui il giallo più riuscito è – gaddianamente – quello che non ha una soluzione.

L’indagine psicologica e sociale

Le venature thriller, la suspense del sospetto, tutto concorre alla costruzione di un’opera psicologica, esteriormente francese – con dissolvenze, contrazioni tipiche della Nouvelle Vague – e una profonda matrice italica, striata di umorismo, notazioni di costume, verve affabulatoria tipica del nostro cinema. Nell’atmosfera fumosa, soffocante oltre il limite (non solo il commissariato, ma ogni ambiente abitato da Martelli è angusto) si svela la forma del cinema di Petri, che pesca dal crime, dal poliziesco anglosassone e poi rovescia le aspettative, sabota interiormente le linee guida del genere. Il tortuoso procedere della narrazione risponde a un desiderio di scandaglio sociale, alla denuncia di certe pratiche ataviche, connaturate all’ambiente medio borghese che, da sempre, è il «territorio esclusivo della commedia all’italiana».

Stupisce la capacità di Petri di descrivere e far muovere la psiche di Martelli, di rendere le sue idee proiezioni di immagini, in un viaggio kafkiano nei recessi dell’inconscio e ancor più nella coscienza collettiva. È la dialettica tra pubblico e privato, il tarlo dell’etica a senso unico il fulcro vitale di quest’opera. Come in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), nel rovesciamento di ruoli ancor tipico del suo cinema, in cui tutto è osmosi e il chiaroscuro riluce, il racconto di un’oppressione diviene metafora della cancrena collettiva. C’è spazio per tutto: per l’orrore del vizio, per la sudditanza del debole al ‘padrone’ (emblematica la dipendenza di Rosetta, Giovanna Gagliardo, ad Alfredo, pronta come è ad autoaccusarsi del delitto), per lo sconfinamento di responsabilità, laddove la polizia opera con metodi illegali e l’accusato – moralmente riprovevole – è, in fondo, una vittima del sistema.

Una metafisica del reale

Come se guardasse tutto da lontano, Petri fotografa uno stato incancrenito, un malessere individuale cifrato, quasi un’allegoria del suo reale. I loschi compagni di cella di Martelli, Paolo (Paolo Panelli) e Toni (Toni Ucci), si configurano come metafore della coscienza, brevi lampi ambigui – e per questo ficcanti – sulla paura e sulla violenza. La loro azione, il loro sapere ‘da strada’, inducono il protagonista a una confessione, a una catarsi salvifica che ha il sapore dell’impostura.

Ogni sfumatura della sua liberazione rivela un senso di incompiuto, ogni dettaglio sul colpevole si mostra futile e incidentale.
Permane, al termine della visione, la certezza di aver assistito a un dramma, alla complessità di personaggi singolarmente universali. Non c’è sarcasmo né vieta retorica nell’indagine di Elio Petri. Tutto sconfina, straborda, fluisce in rivoli torbidi. E punge, dilania. Più del carcere o della colpa.

Tre motivi per vedere il film

  • L’andamento tortuoso della trama
  • Le atmosfere da noir franco-anglosassone
  • L’ottima prova di Salvo Randone

Quando vedere il film

Come primo, obbligato capitolo della filmografia di Elio Petri.

Ginevra Amadio

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Ginevra Amadio
Giornalista pubblicista, laureata in Lettere e Filologia Moderna. Lettrice seriale, amante irrecuperabile del cinema italiano e francese.

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