Partiamo diretti e senza mezzi termini: Leopardi è una divinità e con le divinità non si può parlare. Bisogna consultare oracoli, profeti e quant’altro e comunque non si otterrà risposta (per info fare una piccola ricerca su qualsivoglia forma di religione).
Scontato questo paradosso, possiamo procedere. Ricominciamo.
Giacomo Leopardi è uno dei sommi della letteratura mondiale.
Chi osa dire il contrario non solo è un insensibile, ma anche un incompetente.
Troppo forte?
Ultima prova.
Giacomo Leopardi, il poeta per eccellenza.
Non vi è modo di obiettare la seguente affermazione: il poeta per essere considerato tale deve soffrire.
Si può soffrire in svariati modi, ma c’è un sentimento comune a tutti i poeti ovvero sia la sofferenza dettata da un sentimento di solitudine, che a sua volta dipende da uno stato di smarrimento, dal non trovare pace su questa terra, dall’impossibilità di incontrare pari in sofferenza.
Gli stupidi associano Leopardi al solo pessimismo, ma è necessario sapere che sofferenza non è pessimismo per forza di cose, tutt’altro. D’altronde per comprendere un poeta c’è bisogno di un altro poeta, non se ne abbiano i più. Ora che siamo tutti un po’ più sereni, possiamo partire con la nostra analisi.
“La sera del dì di festa” è un lavoro celestiale: si prova un brivido tutte le volte che gli occhi si vanno a posare su ogni singola parola.
Vediamolo assieme.
Chiaramente non faremo mica la parafrasi scolastica, ma una piccola analisi per sommi capi, entrando nei punti salienti, senza mai dimenticare che questo è soltanto un punto di vista, le emozioni sono assolutamente personali.
“Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna.O donna mia,
Già tace ogni sentiero |…|”
L’incipit, l’introduzione, l’inizio, chiamiamolo come ci pare, del componimento è molto soft, oserei dire, dolce: si percepisce un “Mettetevi comodi, rilassatevi e chiudete gli occhi“.
Leopardi descrive qui, con parole e versi “delicati” e unici, la scena che fa da contorno al tutto e che lascia trasparire un senso di pace e serenità, di distacco. Ma subito si rivolge al suo dolore: “O donna mia“, e da qui in poi si cambia.
“Tu dormi, che t’accolse agevol sonno
Nelle tue chete stanze; e non ti morde
Cura nessuna; e già non sai né pensi
Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.“
Le parole che il poeta usa per descrivere il riposo della sua donna nascondono un senso di rispetto da parte del Leopardi, di estremo amore nei suoi confronti; sembra che abbia voglia di sussurrare i suoi pensieri all’orecchio dell’amata ma così facendo rischierebbe di svegliarla e allora è giusto che lei resti così, nel sonno, quasi immersa come un tutt’uno in quel contorno descritto nei primi versi, come facente parte del paesaggio naturale, tanto che si può percepire un distacco, sia del paesaggio che della donna. È giusto che siano così, separati e che lei non ascolti perché quel dolore straziante ch’egli prova, quella piaga nel petto, non deve sfiorarla, seppure ne sia lei la causa.
E giù col dolore:
“E l’antica natura onnipossente,
Che mi fece all’affanno. A te la speme
Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro
Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.“
Sappiamo bene tutti quanti di essere delle vittime continuamente flagellate da un qualcosa che non sappiamo bene definire, un qualcosa, la natura, che è onnipossente.
Ma per i cuori fragili, per i pensatori, per gli animi dolci non basta soltanto cogliere tale impossibilità, c’è dell’altro.
Perché, per natura, appunto, son “fatti all’affanno” e, in più, ancora e sempre per natura, codesta madre nega loro la speranza, financo la speranza!
Non vi è possibilità alcuna di salvezza, è negata, per loro.
Qui c’è sofferenza, ma…la sentite?
Comprendete sì o no, voi, giudici del “gobbo pessimista“, che è un sentimento profondo che viene dal profondo del cuore e vibra in ogni singolo istante della sua vita? Comprendete che non se la cerca, ma la sente? Comprendete che lo invade, per natura?
Leggete qui e forse capirete:
“|…|e forse ti rimembra
In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
Piacquero a te: non io, non già, ch’io speri,
Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
Quanto a viver mi resti, e qui per terra
Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
In così verde etate!“
Non credo sia necessario aggiungere altro, perché si sente tutto, col proprio cuore lo si può sentire.
E allora che fare? Si cerca una alternativa, un diversivo, un modo per non essere presi da uno sconforto totale, maledettamente più forte di tutto ciò, se possibile. E dove trovar ristoro dell’anima? Sempre lì, nella natura.
“Ahi, per la via
Odo non lunge il solitario canto
Dell’artigian, che riede a tarda notte,
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
E fieramente mi si stringe il core,
A pensar come tutto al mondo passa,
E quasi orma non lascia.“
Nulla da fare, ci si è abbandonati ai suoni della natura, al suo piacevole conforto, ma all’ascolto del canto dell’artigiano, non a caso citato in antitesi come esempio di persona che non vive la sofferenza del Leopardi perché preso dal quotidiano lavoro, si ritorna a riflettere, ad avvertire questo fastidio di vivere.
Perché si soffre, ci si batte, si fa a gara con se stessi dalla mattina alla sera di ogni giorno, si combatte con il mondo, con la gente, contro ogni cosa, si cercano mille modi per ovviare ogni sorta di problemi e si giunge a capire che il problema è la vita stessa.
Dopo questa interminabile ressa, cosa ci resta? Tutto passa e quasi (ma quel quasi ha un valore sottilissimo) orma non lascia.
Svanisce tutto, via. A che pro vivere?
“Nella mia prima età, quando s’aspetta
Bramosamente il dì festivo, or poscia
Ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
Premea le piume;ed alla tarda notte
Un canto che s’udia per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco,
Già similmente mi stringeva il core.“
Va via anche il giorno festivo, come tutto, ma quell’andare via del giorno, quella domenica sera, per intenderci, quel senso del passaggio, del passato, della fine fa stringere il cuscino anche a noi, con tanta maledetta forza!
Questi versi chiudono questo componimento, ripeto, celestiale, questo capolavoro, questa vera e propria arte di riuscire ad esprimere un’emozione, un sentimento con i versi, con poesia.
Il dolore che sente Leopardi lo sentiamo tutti, tutti noi che abbiamo il cuore delicato, fragile, dolce.
Tutti noi che, ahimè, e beato l’artigiano, riflettiamo sulla vita e non possiamo far altro che convenire con questa Nausea, direbbe Sartre, con questa mestizia, con questo dolore.
La piccolissima differenza è proprio nella grandezza dell’artista: Leopardi è in grado di rendere dolce questa sofferenza, di edulcorarla, tanto che leggendone i versi si prova un sentimento analogo a quello del poeta senza rendersi conto che, grazie a quei versi così delicati, ci si sta alienando, ci si sta beando tra le corde dell’annullamento momentaneo. È medicina, è magia!
Ecco perché Leopardi non è solo pessimismo, proprio per questa capacità di analisi e di trasmissione, per chi lo capisce, è ovvio.
Leopardi è riflessione e sofferenza, è dolcezza pura e pulita, è poesia!
Lorenzo Romano