“Quando sei cattivo sul serio non fai finta, sei così e basta. Mi piaceva essere cattivo. Quando provavo a essere buono mi dava il voltastomaco.”
Charles Bukowski
Quanto è duro Bukowski? Tanto.
Quanto è acre Bukowski? Moltissimo.
Quanto è vero Bukowski? Da morire.
Sarà forse altrettanto vero che la vita ti segna, che ogni ferita livella gli strati del tuo cuore fino a farli parlare così come è vero che la verità va detta in faccia, sputata su un bel piatto d’oro.
E questo era Charles Bukowski, tedesco di origine e americano d’adozione, un bel mix di influenze che lo hanno portato a divenire uno dei più grandi esponenti della letteratura americana del secondo ‘900.
Il suo stile è noto anche a chi non lo ha mai letto; tutti sanno che Charles ha uno scorza dura, durissima, utilizza delle parole taglienti, sporche e affilate ed ha una aggressività non comune (la si può benissimo cogliere leggendo poche righe di un suo romanzo, con frasi brevi e tanti punti, che spezzano, che tagliano).
Per cercare di comprendere la corazza Bukowsiana è necessario fare una piccola ricerca.
Se aveva questo modo di fare, di scrivere, di vivere, se davanti a tutto metteva sempre una sorta di materialismo e di brutalità, sicuramente risentiva dell’influenza delle sue radici, delle sue origini:
“Eravamo come eravamo e non volevamo essere diversi. Venivamo tutti da famiglie vittime della Depressione e molti di noi erano malnutriti |…|. Eravamo grotteschi, ma la gente stava attenta a non riderci in faccia. Era come se fossimo cresciuti troppo in fretta ed eravamo stufi di fare i bambini.”
Un pessimo rapporto col padre, una madre quasi trasparente, un’infanzia segnata dalla povertà, un’adolescenza piena di acne…e insomma, tutto ciò avrà avuto un ruolo importante nella sua formazione.
“Va bene, Dio, mettiamo pure che Tu esista veramente. Mi hai sistemato per benino. Vuoi mettermi alla prova. E se invece Ti mettessi io alla prova? E se dicessi che Tu non esisti?
Mi hai sottoposto alla prova più ardua dandomi prima i miei genitori e poi questi bugni. Credo di aver superato la prova. Sono più forte di Te.”
Ben pochi, però, sanno che tutti questi aspetti nascondono un’anima poetica, un occhio che è proprio solo a chi riesce a cogliere ciò che i più non vedono.
Il suo stile non è altro che un bellissimo contorno, quasi, oserei dire, protettivo, dell’involucro interno, della sua anima.
La leggerezza di alcuni passaggi dei suoi romanzi e la bellezza delicata di alcuni suoi versi possono scaturire soltanto da un occhio fine, particolare.
Per cogliere tale caratteristica citeremo a mo’ di esempio alcuni passi delle sue opere, sia quelli più rudi (dal romanzo “Panino al prosciutto”) che quelli maggiormente poetici (tratti dallo stesso romanzo e dal componimento “Style”) che toccano argomenti d’ogni tipo, dal politico al sociologico fino al filosofico-letterario, senza tralasciare mai l’umano.
Tutti questi pensieri vengono fuori così, quasi dal nulla, con la loro profondità, mentre Bukowski sta narrando col suo modo crudo l’episodio di una rissa o di un rapporto carnale.
“Un paio di anni prima avevo deciso di chiudere con la religione. Se era tutto vero, faceva fessa la gente, o la faceva diventare fessa. E se non era vero, i fessi erano ancora più fessi.”
“La vita non aveva senso, come la struttura delle cose.”
“Mi sedetti sul divano. Ubriacarsi era bello. Decisi che mi sarebbe sempre piaciuto ubriacarmi. Liberava dall’ovvio e forse, se riuscivi a liberarti dall’ovvio abbastanza spesso, non rischiavi di diventare ovvio.”
“Non sapevo neanch’io cosa volevo. E invece sì che lo sapevo. Volevo un posto dove nascondermi, un posto dove non dovevo fare niente. Il pensiero di diventare qualcuno non solo mi terrorizzava, ma mi faceva proprio schifo. |…| Sposarsi, avere figli, essere inchiodati nella struttura della famiglia. Andare da qualche parte a lavorare tutti i giorni e tornare a casa. Era assurdo…un uomo nasceva solo per sopportare cose del genere e poi morire? Avrei preferito fare lo sguattero, ritornare da solo in un buco di stanza a stordirmi con la bottiglia fino ad addormentarmi.”
“Invece avevo imparato che i poveri rimanevano poveri.”
“Be’, se il funerale fosse il mio dovrei per forza essere puntuale. E se il matrimonio fosse il mio equivarrebbe al mio funerale.”
“Una delle disfatte della democrazia è che un populista garantisce un leader populista che in seguito ci condurrà a una comune apatica prevedibilità populista!”
Nel passo seguente si può vedere come il giovane Charles, seppur vittima di un contesto poco ricco e di un’adolescenze infelice, riesca, da sé, ad appassionarsi dei libri.
Qui è proprio madre natura natura che parla.
“Scoprii la biblioteca pubblica di La Cienega. |…| Giravo per la biblioteca alla ricerca di libri. |…| Continuavo a tirare giù libri dagli scaffali. |…| Leggevo un libro al giorno. |…| E poi mi toccò Hemingway. Che emozione! Lui sì che sapeva scrivere. Era una gioia. Le parole non erano noiose, le parole erano cose che potevano farti ronzare il cervello. Bastava leggere e lasciarsi andare alla magia, e potevi vivere senza dolore, con speranza, qualsiasi cosa ti succedesse. |…| Per me questi uomini che erano entrati nella mia vita chissà da dove rappresentavano la mia unica via d’uscita. Erano le sole voci che mi parlavano.”
Forse ancora più chiaro è questo passo che conferma la tesi tra corazza e anima con quella capacità di trovare la rosa tra le spine.
Essendo fasciato dalla testa al bacino a causa della grave forma d’acne che lo aveva colpito, si ritrova, appunto bendato, ad osservare una donna; in altre situazioni avrebbe sofferto questo suo stato, essendo fissato da tutti, ma ora, ormai stanco di ciò, decide di alienarsi e di trarne addirittura giovamento:
“Ero bendato, e stavo fermo all’angolo della strada a fumare. Ero un vero duro, ero un uomo pericoloso. La sapevo lunga. Sleeth si era suicidato. Io non mi sarei suicidato. Piuttosto avrei ucciso qualcuno di loro. Ne avrei portati quattro o cinque con me. Gliel’avrei fatta vedere io a chi mi prendeva in giro. Una donna venne nella mia direzione. Aveva belle gambe. Prima la fissai negli occhi e poi le guardai le gambe e, mentre passava, le guardai il culo, mi bevvi quel culo. Me lo stampai nella memoria insieme alle cuciture delle sue calze di seta. Senza le bende non avrei mai potuto guardarla in quel modo.”
Su tutto, dobbiamo apprezzare la bellezza del componimento “Style”, così “dolcemente chiaro”:
“Style is the answer to everything.
A fresh way to approach a dull or dangerous thing
To do a dull thing with style is preferable to doing a dangerous thing without it
To do a dangerous thing with style is what I call art
Bullfighting can be an art
Boxing can be an art
Loving can be an art
Opening a can of sardines can be an art
Not many have style
Not many can keep style
I have seen dogs with more style than men,
although not many dogs have style.
Cats have it with abundance.
|…|
Style is the difference, a way of doing, a way of being done.
Six herons standing quietly in a pool of water,
or you, naked, walking out of the bathroom without seeing me.”
Dopo la fase adolescenziale non andrà meglio per Bukowski, tra lavori presi e buttati nel cesso per niente, un rapporto di maniacale dipendenza da alcol e sigarette e una continua instabilità generale, tutti divenuti poi temi dei suoi romanzi.
Ma, d’altronde, chi ha detto che cercava stabilità?
Non stiamo qui dicendo che era un esteta raffinato e dolce, ma che oltre quell’aspetto duro, al di là dei confini di quei modi di fare torvi e gretti, in un angolino della sua anima c’era qualcosa di profondo e questo qualcosa veniva fuori, di tanto in tanto, come in mezzo ai rovi.
La sua bellezza sta proprio in quelle battute pronte, in quella leggerezza del vivere alla giornata, al secondo, in quel non avere voglia di star lì ad elucubrare su ogni cosa, ma soltanto voglia di vivere le esperienze al massimo, senza freni e senza peli sulla lingua, senza regole e senza padroni.
“Non ero un misantropo né un misogino, ma mi piaceva starmene da solo. Mi sentivo a mio agio da solo in un buco a fumare e bere. Ero da sempre la miglior compagnia di me stesso.”
“Ma non volevo essere niente comunque. E ci stavo riuscendo molto bene.
Qualsiasi cosa, qualsiasi cosa pur di smettere di affondare in questa esistenza noiosa, triviale e vigliacca.”
Il nulla, la nausea, l’incompatibilità con la vita: Bukowski va sulla scia di Sartre, di Kafka, di Joyce, ma lo fa con uno stile tutto suo, uno stile che non è nient’altro che una bella metafora della vita: ti tira un pugno in faccia, ma tu sei col bicchiere sempre pieno!
Lorenzo Romano
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