Il nome della rosa: una serie che non convince appieno

nome della rosa
Una scena della serie tv

Il pubblico ha premiato con ottimi ascolti la prima puntata della serie tv Il nome della rosa andata in onda lo scorso 4 marzo.

Da una parte il film di Jean Jaques Annaud. Dall’altra la fiction firmata da Giacomo Battiato. In mezzo, ovviamente, il capolavoro di Umberto Eco.

La spasmodica attesa  è terminata alle 21.20 in punto di lunedì scorso, quando su Raiuno finalmente ha inizio Il nome della rosa.

Dopo mesi di martellante pubblicità ora è tempo di guardare, di gustarsi l’ennesima lettura del romanzo di Umberto Eco.

Stiamo parlando, ovviamente, della serie tv, il colossal firmato Giacomo Battiato, con un cast di rilievo.

L’attenzione del pubblico è stata fin dalle prime immagini giustamente massima, anche perché sapientemente alimentata dai media in questi ultimi tempi.

Inevitabile, quindi, il confronto con il capolavoro di Jean Jaques Annaud, il suo Il nome della rosa del 1986, pellicola che, obtorto collo rappresenta un punto di partenza e, per certi aspetti, anche di irrinunciabile arrivo per il lavoro di Battiato.

La prima cosa che non convince della serie tv è la scelta della voce narrante del vecchio Adso da Melk.

Come nel film di Annaud, anche in questo, il vecchio Adso da Melk ricorda i fatti accaduti decenni prima in un’abbazia di cui è meglio tacere il nome.

Si tratta, tuttavia, di una voce che appare troppo distaccata, monocorde, inadeguata per l’importanza della narrazione.

Una voce che non scuote, che non suscita trasporto.

Ben diversa da quella di Renato Cucciolla che aprì il film di Jean Jaques Annaud, proiettando immediatamente lo spettatore nel vortice di quegli incredibili fatti.

Poi è la volta dei due assoluti protagonisti: Guglielmo da Baskerville e Adso da Melk.

Il primo interpretato da Jonh Turturro, il secondo invece da Damian Hardung.

E qui inevitabilmente il giudizio si diversifica.

Da applausi la prova di Turturro.

L’attore americano aveva davanti a sé una montagna da scalare. Tale era il confronto con il leggendario Guglielmo interpretato da Sean Connery.

E la vetta è stata raggiunta. Turturro ha scelto di rappresentare il frate francescano in un modo del tutto differente da quanto fece nel 1986 Connery.

Il volto ossuto e irregolare, lo sguardo profondo, la gestualità contenuta, donano una nuova veste al protagonista del romanzo di Eco, che non dispiace.

Un’interpretazione asciutta, priva di inutili orpelli ma pienamente convincente, sottolineata anche dalla voce del doppiatore italiano, Angelo Maggi.

Non lo stesso si può dire quella di Damian Hardung.

Il suo Adso non colpisce.

Rimane troppo nell’ombra, risultando a tratti del tutto impalpabile.

Standing ovation, invece, per la prova del nostro Fabrizio Bentivoglio nella parte del dolciniano Remigio da Varagine.

Ne esce, infatti, un personaggio del tutto diverso da quello del film di Jean Jaques Annaud.

Quel Remigio, nei cui panni si calò il bravo Helmut Qualtinger, era rozzo, brutale, ai limiti dell’animalesco. Questi, al contrario, è un personaggio delicato, complesso, con un profondo e controverso vissuto. Bentivoglio sceglie un taglio psicologico per il suo personaggio e convince appieno.

Il suo Remigio è quasi ascetico, per nulla terreno, lacerato dal suo passato affianco all’eretico Dolcino, interpretato da un furioso Alessio Boni, che immancabilmente riaffiora.

Impossibile non soffermarsi sull’interpretazione di Salvatore che grazie alla pellicola di Jean Jaques Annaud è divenuto uno dei personaggi iconici del Il nome della rosa.

All’epoca fu interpretato dal bravissimo, ma ai più sconosciuto, Ron Perlman.

Si trattava per l’attore newyorchese del suo secondo ruolo importante, dopo quello recitato nel film La guerra del fuoco del 1981 sempre di Jean Jaques Annaud.

E lui lo volle cinque anni dopo nel cast del suo Il nome della rosa e fece benissimo.

Fu, infatti, quella prova, un capolavoro assoluto.

La fisicità di Perlman, sottolineata dalla babelica e astrusa lingua e dal volto mostruoso, rimane negli annali cinematografici.

Per questo in partenza la lotta intrapresa dal nostro Fresi, (nelle sale italiane attualmente con C’è tempo di Walter Veltroni), irriconoscibile per il complesso trucco, appare impari.

Chiunque non sarebbe stato all’altezza.

Sarebbe come provare a emulare il mitico Martin Alan Feldman  nel leggendario Igor di Frankenstein Junior .

Fresi è bravo e coraggioso ma il confronto è costante, inevitabile e schiacciante.

Forse, al pari di Bentivoglio, avrebbe dovuto optare per un’interpretazione complessivamente differente, marcando altri aspetti di Salvatore, ma anche questa soluzione sarebbe stata improba.

Nel complesso il giudizio su questa prima puntata del Il nome della rosa è nell’insieme positivo.

Le luci, alla fine, prevalgono sulle ombre.

La scenografia è superba, con inquadrature suggestive anche se forse troppo patinate; i costumi straordinari,  la prova degli altri attori efficace.

Bravissimi l’ascetico Roberto Heelizka, nei panni di Alinardo da Grottaferrata e Tchéky Karyo, in quelli pomposi di papa Giovanni XXII.

Meno convincente la prova di James Cosmo che interpreta padre Jorge da Burgos e che, dispiace, fa rimpiangere e non poco il russo Saljapin, caratterizzò in modo magnifico l’ex bibliotecario, custode dei più reconditi segreti dell’inespugnabile biblioteca.

Piacciono le divagazioni storiche, rese possibili dal maggior tempo a disposizione del regista, capaci di focalizzare al meglio l’intreccio che fa da sfondo alla trama.

Sospeso il giudizio su Rupert Everett nei panni dell’oscuro Bernardo Gui, il terribile inquisitore domenicano.

In questa prima puntata lo si è visto troppo poco per formulare una critica compiuta anche se il peso dell’attore britannico lascia ben sperare..

Non rimane, ora, che attendere lunedì 11 marzo per vedere la seconda, attesissimi puntata di un prodotto che, al netto dei giudizi e dei gusti soggettivi, ha l’indubbio merito di dare ancora voce al capolavoro di Eco.

Le mille vite di un capolavoro: Il nome della rosa

Maurizio Carvigno

Foto: Fabio Lovino su concessione della Rai 

Maurizio Carvigno
Nato l'8 aprile del 1974 a Roma, ha conseguito la maturità classica nel 1992 e la laurea in Lettere Moderne nel 1998 presso l'Università "La Sapienza" di Roma con 110 e lode. Ha collaborato con alcuni giornali locali e siti. Collabora con il sito www.passaggilenti.com

2 Commenti

  1. Considerando la maniacale, meravigliosa precisione dei romanzi di Umberto Eco, in cui ogni particolare, ogni rimando, sono di una precisione assoluta, qualunque siala materia, ci sono alcuni particolari che stridono. Che denotano poca cura. Mentre Guglielmo e Adso salgono al monastero la prima volta, in bosco di faggi innevato e spoglio, sotto un cielo grigio, la giovane occitana che li segue e li spia è tra fronde verdi e ammantata dal sole. Nella seconda puntata, il rapace notturno incontrato da Adso è una civetta delle nevi, che fa tanto Harry Potter, ma vive oltre il circolo polare Artico e non si è mai vista sulle Alpi!!!

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