Senza alcun dubbio “Non siamo più vivi”, la serie coreana su Netflix basata su un’apocalisse zombi, poteva essere realizzata con la metà degli episodi. Tuttavia, nonostante la lentezza di alcuni momenti, la stranezza di alcune scelte e la forma mentis orientale e decisamente retrò presente nella serie, non mi sento di sconsigliarla del tutto.
Storia di un virus quasi letale
Dopo una serie di esperimenti, un professore dà il via ad un’apocalisse zombi: il virus da lui ideato aumenta la rabbia delle persone rendendole dei mostri cannibali, assettati di carne umana e altamente contagiosi. Tale virus colpisce una scuola intera e tutta la città circostante, ma i protagonisti restano gli studenti barricati che tentano di sopravvivere. Per metà della serie (si tratta di dodici lunghi episodi) la suspense sarà messa in secondo piano, come la fantasia dello spettatore di proseguire la visione. Ma col passare degli episodi, oltre ad aumentare le scene dell’orrore (incluso lo splatter) aumenta anche lo sviluppo psicologico dei personaggi. I nostri protagonisti sono giovanissimi alle prese con i primi amori, il bullismo e la solitudine, ma nella serie non manca neppure l’influencer che approfitta dell’apocalisse per fare una live in diretta con gli zombi o il papà che si trasforma nello Schwarzenegger di turno per salvare la figlia.
Non è la solita apocalisse
La costante parodia del Covid19 – ci sono ad esempio dei pericolosissimi zombi asintomatici – va pari passo con la crescente brutalità dell’essere umano. Quella proposta è una tipica “pandemia psicologica”, che per certi versi ricorda il film Contagious, in cui il già menzionato Arnold osservava sua figlia trasformarsi in zombi per tutta la durata della pellicola. Non abbiamo quindi a che fare con una storia di sussulto, bensì con il racconto di un trauma psicologico che tarda ad emergere. All’inizio i ragazzi continuano a parlare tra di loro come se vigessero ancora le dinamiche e le regole del “prima”. Impossibile non arrabbiarsi mentre si vedono persone morire come mosche e i protagonisti che ancora discutono per le loro simpatie e antipatie personali. Piano piano però, gli studenti iniziano ad avere a che fare con enormi tragedie personali che coinvolgono la loro famiglia e i loro amici: saranno questi eventi e la crescente sensazione di essere stati abbandonati dalle autorità – e dunque dal mondo dei grandi – a renderli dei personaggi a cui affezionarsi, ma soprattutto dei personaggi ormai “maturi”. Lo ammetto, però: per i primi cinque episodi è stata davvero dura distinguerli tra loro a causa della proverbiale somiglianza di lineamenti spesso riscontrata dagli occidentali.
Da fan del genere zombi posso dirvi di non aspettarvi il Romero della situazione, ma d’altro canto non posso negare di essere rimasta vagamente affascinata dall’approccio coreano alla Pandemia e in generale al mondo degli zombi: sempre su Netflix è presente #Alive, un film coreano che già mi aveva lasciato piacevolmente stupita.
Per sintetizzare e concludere, raccolgo e porto con me la forte la necessità orientale di lanciare un messaggio molto semplice, che noi italiani potremmo riassumere con un laconico:
L’importante è la salute
A buon intenditor.
Alessia Pizzi