Indubbiamente il 2006 verrà ricordato come l’anno dell’illusione sul grande schermo. Furono ben tre i film che quell’anno trattarono l’arte del prestigio al cinema: la mystery-comedy alleniana Scoop, il cupo The Illusionist di Neil Burger e l’adattamento nolaniano del romanzo The Prestige di Christopher Priest.
La storia della pellicola in oggetto ha inizio ben 6 anni prima della sua distribuzione, durante il tour festivaliero e promozionale di Memento. La Newmarket Films, casa di produzione che vanta l’aver portato in auge il regista britannico, acquistò i diritti per la trasposizione e, su richiesta dello stesso Priest, incaricò Christopher Nolan di adattarlo per la sala. Impegnato sul set di Insomnia, il cineasta affidò gran parte della stesura al fratello Jonathan ma il compito non fu dei più semplici. Data la complessità narrativa dell’opera su carta, basata sui diari dei due protagonisti e con molte più parti in causa, qui totalmente assenti, la trasposizione cinematografica si differenzia radicalmente dall’originale pur mantenendone lo scheletro.
Seppur già dal primissimo Following, i punti cardine della poetica dell’autore erano già stati chiaramente delineati, The Prestige ne diventa il manifesto. Una volta per tutte il regista confessa i suoi desideri, la sua visione del mezzo cinematografico e la fiducia che in esso ripone come strumento per comunicare, stupire, emozionare e, perché no, ingannare lo spettatore.
Una rivalità mortale
A cavallo tra il XIX° e il XX° secolo, in una Londra di botteghe e palcoscenici, due giovani prestigiatori si confrontano sull’arte dell’illusione, quando un tragico evento li metterà l’uno contro l’altro. Sabotandosi e studiandosi reciprocamente, Borden (Christian Bale) e Angier (Hugh Jackman), diventeranno acerrimi nemici, tormentati dal loro lavoro e dalla realizzazione, quanto più stupefacente possibile, del trasporto umano. Il numero prevede che l’illusionista scompaia, per poi immediatamente riapparire, su un altro lato del palco. Questa ricerca della perfezione, e del successo professionale, li condurrà a sacrificare sé stessi e a ferire chi gli sta intorno. In un sentimento ossessivo di totale devozione alla loro arte, verranno a contatto con un uomo misterioso e, per certi versi, similare a loro: Nikola Tesla (David Bowie).
Le fondamenta di un capolavoro
Costato soltanto 40 milioni di dollari, The Prestige è sul podio delle realizzazioni meno dispendiose della filmografia del regista. Tuttavia, il budget contenuto non ha in alcun modo impedito alla produzione di vantarsi di un cast eccezionale e di varia caratura, nonché di realizzare un’imponente rappresentazione di una Londra artigiana, profondamente trasformata dalla cosiddetta “Seconda rivoluzione industriale”. Quella dell’epoca era una popolazione londinese sfaccettata, con una divisione sociale estremamente marcata mostrataci, negli usi, nelle abitudini e nelle possibilità, attraverso delle splendide e movimentate camminate tra botteghe e mercati. Queste si contrappongono alle più agiate partecipazioni a esibizioni scientifiche o illusionistiche nei teatri più prestigiosi. Anche le umili origini di Borden, contrapposte alle più borghesi provenienze di Angier, illustreranno due diversi modi di intendere il mondo, l’amore ed il lavoro.
Strabilianti sono i costumi che riescono perfettamente ad enfatizzare il tessuto sociale di quegli anni. Utilizzando colorazioni per la maggior parte spente su scala di marroni, ci ritroviamo catapultati in una società industriale fatta di manualità e sacrifici che aspira alla straordinarietà, in un periodo di forti innovazioni tecnologiche. Ed è così che Olivia, l’assistente di scena di Angier prima, e Borden poi, interpretata da una statuaria Scarlett Johansson, sarà l’unico personaggio presente nell’intero film a vestire abiti colorati, destinati ad ammaliare, distrarre e stupire, permettendo di sognare. Così come sognatrice è lei stessa, innamorata dei due illusionisti ma destinata alla sofferenza. Eternamente seconda, prima in ombra dal desiderio di vendetta dell’uno, poi dall’ossessiva devozione al lavoro dell’altro, Olivia sarà vittima di un dualismo che, come Sarah (Rebecca Hall), moglie di Borden, riuscirà a cogliere ma non ad accettare. Tuttavia, il destino di un amore inappagato è qui condiviso da tutte le parti in causa, avendo anche nei personaggi maschili un ruolo di fondamentale rilievo. Questi ultimi saranno infatti incapaci di godere, per loro stessa scelta, dei sentimenti delle persone che li accompagnano nel quotidiano. L’ossessivo Angier, in arte “Il grande Danton”, ha qui il volto di Hugh Jackman, che di palchi e teatri ha vissuto prima di approdare al cinema, grazie a Bryan Singer ed al suo X-Men. Il devoto e spigoloso Borden, “Il Professore”, è invece Christian Bale, protagonista anche del precedente film di Christopher Nolan: Batman Begins. Nella pellicola sulle origini del Cavaliere Oscuro troviamo anche la leggenda Michael Caine, presente anche nel qui presente The Prestige, nei panni dell’ingénieur John Cutter: ideatore di trucchi e numeri, nonché padre spirituale dei due prestigiatori. Tuttavia, la presenza più forte, ed il casting più azzeccato dell’intera opera, è quella di David Bowie nelle vesti del tuttora misterioso Nikola Tesla. Fortemente voluto e lungamente corteggiato da Christopher Nolan, il Duca Bianco infonde un’aura mistica al suo personaggio, vero realizzatore dell’impossibile e capace, con il suo genio, di cambiare il mondo. Un visionario proprio come il suo interprete, che tristemente ci ha lasciato nel gennaio 2016.
La chiave di lettura del cinema nolaniano
Come di consueto (fino a quel momento con la sola eccezione di Batman Begins), i fratelli Nolan decidono di iniziare la narrazione con la fine o, per meglio dire, con parte di essa. Attraverso un’astuta alternanza di due numeri speculari che rivedremo in seguito, assistiamo alla spiegazione dei momenti di cui è composto un numero di magia. È la voce di John Cutter che, chiedendoci di osservare attentamente, suddivide lo spettacolo illusionistico in 3 parti: la premessa, la svolta ed il prestigio. Citando le parole dell’ingènieur, qui alter-ego del regista, durante il primo atto (la premessa) viene mostrato al pubblico qualcosa di ordinario, apparentemente normale, che verrà poi trasformato dall’illusionista in qualcosa di straordinario (la svolta). Tuttavia il pubblico, che non sta realmente guardando, desiderando l’inspiegabile, applaudirà soltanto con il terzo atto (il prestigio), dove l’oggetto sparito/alterato tornerà alla normalità. Immediata è l’associazione tra lo spettacolo illusionistico e la proiezione cinematografica. Così come il numero di magia anche la sceneggiatura di un film, in uno stilema occidentale, è composta da tre atti e possiamo facilmente associare il regista alla figura del prestigiatore. La sala cinematografia è il luogo della finzione per eccellenza e da sempre Christopher Nolan, così come altri (M. Night Shyamalan, per esempio), punta all’emozione data dal prestigio, dal colpo di scena.
Così come un uomo che scompare sotto gli occhi di un pubblico pagante per poi afferrare una pallina dall’altra parte del palco (l’originale trasporto umano di Borden), in The Prestige viene palesato uno dei dogmi del cinema nolaniano. Viene dunque dato un significato ancora maggiore all’ultima sequenza di Cobb in Following , similare al conclusivo saluto silenzioso che vedremo al termine di The Dark Knight Rises; al ritorno a casa dei lontani protagonisti di Inception, Interstellar e Dunkirk; fino ai giochi temporali di inizio/fine di Memento e Tenet, che rimettono i nostri costantemente alla casella di partenza al termine della proiezione. La ricomparsa dello scomparso, del lontano (o dell’alterato al suo stato iniziale) avviene sempre, come per magia.
Nonostante la segretezza e la totale devozione alla propria arte sia uno dei temi fondamentali della pellicola in esame, non dimentichiamo che, come visto nell’analisi della sua opera prima Following, Christopher Nolan riempie metaforicamente delle scatole che vogliono essere scoperte. Per questa ragione, dissemina le sue opere di indizi e depistaggi che consentano al pubblico di tornare ad essere ingannati, ancora una volta alla ricerca del segreto che si cela dietro al numero/proiezione. Discostandosi da un esempio lynchiano, il cineasta brittanico fornisce al suo pubblico la chiave di lettura definitiva per la sua filmografia attraverso il riadattamento del romanzo di Priest.
Borden e Angier: i due volti dell’arte della finzione
Saltando ripetutamente da una linea temporale all’altra, il labirinto narrativo si struttura sulla lettura dei due diari dei protagonisti che andranno, pagina dopo pagina, ricordo dopo ricordo, a comporre un puzzle di ossessione, amori non vissuti e morte. Capiamo dunque che il tema predominante dell’opera è senza dubbio: il doppio, anche se inquadrato in una diversa accezione. Sebbene il dualismo sia ricorrente, tra doppelganger, doppiogiochisti, rivalità e doppi nodi, l’intero film è principalmente uno scontro ideologico tra due modi di vivere e veicolare l’arte dell’illusione e, dunque, il cinema stesso. Come suggeriscono i nomi dei due manipolatori della realtà, Alfred Borden (A.B.) e Robert Angier (R.A.), non sono altro che due facce di una stessa medaglia che, congiuntamente, permettono la realizzazione dell’impossibile (le loro iniziali compongono la radice della parola: Abracadabra). Il personaggio di Christian Bale è estremamente pratico, quasi spoglio e, sottoponendo il proprio lavoro unicamente al suo giudizio, non è davvero interessato ad arrivare al cuore del pubblico. Borden, che possiede in sé il vero genio creativo, è desideroso di essere ricordato dal mondo, facendo sì che: “gli altri illusionisti stiano lì a grattarsi la testa“. Ed è già quello che accade durante le vicende narrate, con il mago interpretato da Hugh Jackman, meno ingegnoso ma più uomo da palcoscenico che, desideroso di svelare il mistero dietro il “trasporto umano”, farà della risoluzione del segreto del rivale la sua ragione di vita. A differenza dell’ex amico però, Angier mette il pubblico al primo posto, cercando di donare loro un’esperienza straordinaria e puntando alla spettacolarizzazione dei suoi numeri. Entrambi dunque cercano un modo per ingannare la morte ma, se il primo spinge per l’immortalità data dalla riflessione del contenuto, il secondo mira alla straordinarietà della forma.
A fronte delle similitudini e dei continui parallelismi tra arte cinematografica ed illusoria, le ideologie dei due protagonisti non sono altro che i due volti del Cinema: autoriale e mainstream. Due visioni che Christopher Nolan sposa appieno e delle quali vuole esserne ponte, permettendo allo spettatore l’evasione dall’ordinarietà scaturita da intrecci narrativi intriganti e spettacolarizzazioni visive, forte però di una poetica chiara e solida a cui tornare. The prestige ci porta dunque a riflettere sulla rivalità effimera di due ideologie che non si sottraggono dal denigrarsi vicendevolmente. Due modi di intendere il Cinema e di veicolarlo al pubblico, che non sono l’uno non meno importante dell’altro, ma sono invece complementari. Utilizzando le parole del Nikola Tesla di Bowie: “l’ossessione non porta a niente di buono“, viene dunque suggerito che la bramosia d’imporsi come vera natura dell’arte cinematografica, non può che portare unicamente alla sofferenza del Cinema stesso.
Christopher Nolan firma dunque il suo capolavoro assoluto, toccando il punto più alto della sua filmografia ancora in corso, con un film impeccabile sotto ogni angolazione. L’ennesimo labirinto temporale è un gioco di specchi e parallelismi perfettamente ideato, attraverso il quale il regista confessa la sua visione del Cinema come luogo del sogno, della straordinarietà e del genio creativo. Nolan riesce nell’impresa tentata da Angier e Borden, rappresentazioni della sua duplice natura quale autore, di trovare il numero che li avrebbe resi immortali. L’opera nata da quel successo porta il nome di The Prestige.
Michele Finardi
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