Kieslowski e “La doppia vita di Veronica”: corrispondenze esistenziali

kieslowski

Simbolico e ammaliante, La doppia vita di Veronica di Krzysztof Kieslowski mette in scena uno sdoppiamento che si fa paranoia.

Titolo originale: La Double Vie de Véronique
Regista: Krzysztof Kieslowski
Sceneggiatura: Krzysztof Kieślowski, Krzysztof Piesiewicz
Cast principale: Irène Jacob, Halina Gryglaszewska, Aleksander Bardini, Claude Duneton, Władysław Kowalski, Philippe Volter 

Già presente in nuce, come un annuncio soffuso, nelle pieghe secondarie del Decalogo 9, La doppia vita di Veronica appare una pellicola di raccordo nella filmografia di Kieslowski, quasi un tentativo di ripresa e ampliamento di temi già dati ma potenzialmente infiniti. Non c’è sorpresa nella macchina narrativa che il regista mette in moto e la freddezza, a tratti persino disturbante, di un narrare impastato di inquietudine, riflette perfettamente ciò che gli spettatori chiedono alla sua opera.

Tra tematiche e simboli

La perturbazione dell’orizzonte d’attesa alberga semmai, nel cinema di Kieslowski, all’interno del singolo film come microcosmo finzionale. Se concepita in tal senso, La doppia vita di Veronica è un lavoro perfettamente “chiuso”, segnato da un’ammaliante tensione emotiva che conduce al turbamento analitico ben prima della fine. Tuttavia, sottratta al suo isolamento, la pellicola appare piuttosto l’anello di una catena di corrispondenze tematico-stilistiche, tutte funzionali allo scavo interiore e alla riflessione (para)psicologica.

Il doppio

La vicenda, di per sé scarna, è quella di una donna sdoppiata, pericolosamente in bilico tra disturbo dissociativo e vera e propria reincarnazione. Non c’è, difatti, un confine netto nell’opera Kieslowski, ogni stato appare definito eppure sfuggente sicché è impossibile sceverare il vero dal falso, la realtà dalla sua proiezione. Weronika (Irène Jacob) è una cantante polacca con una malformazione congenita al cuore. La sua storia si consuma nello spazio simbolico di un concerto nefasto, quasi un rito funebre preconizzato dai colori cupi e dalla musica di Zbigniew Preisner, lugubre accompagnamento alla morte per infarto. Dall’altra parte, a chilometri di distanza, c’è Veronique (ancora Jacob), anche lei cantante e inconsapevole “ritrattista” della sua gemella, incontrata per caso durante una manifestazione a Varsavia.

kieslowskiDettagli rivelatori

La sua fotografia, triste relitto di una memoria confusa, diviene per la giovane il filtro mediante cui osservare le proprie inquietudini. Come uno specchio imperfetto, l’istantanea restituisce un riflesso che è insieme indagine e avvertimento. Conoscere i dettagli di un destino già dato può forse salvare una vita segnata? Gli interrogativi e l’angoscia di Veronique sono restituiti da Kieslowski mediante la solita, raffinata, inquadratura in dettaglio, capace di cogliere lacrime, rughe, mani che si torcono.

Oltre la superficie

L’operazione di scavo che egli mette in campo non si limita, come sempre, a una superficiale eppur corretta indagine del pensiero. Il movimento della camera fissa dettagli che vanno oltre la rappresentazione, quasi volessero assurgere a simboli di una condizione profonda. La stessa attenzione maniacale rivolta agli attori – cercati, provinati e tormentati – rivela il vizio kieslowskiano di “chiedere di più” al personaggio e alla storia. La naturalezza di Irène Jacob, notata da Kieslowski sin da Arrivederci ragazzi di Louis Malle [1], risponde con perfezione al compito di rimando ad un piano altro, fatto di sentimenti e pensieri che precedono l’istante fissato.

Soggettive rovesciate 

Se ciò che un attore può offrire, al di sopra di tutto, «è la propria vita» [2], essa non può che assurgere a rappresentazione universale, strappando il velo della maschera che separa ruolo e persona. Non è casuale la scelta di introdurre due marionette in una delle scene più intense del film; come Weronica e Veronique, i fantocci a loro (o meglio, a lei) ispirati sono posizionati uno dritto in piedi e l’altro disteso e immobile. Mentre le soggettive rovesciate si alternano ai primi piani, la crescente tensione che corrode Veronica irrompe sullo schermo con un messaggio potente.

Comunicare l’invisibile

La comunicazione – se così possiamo chiamarla – viaggia attraverso codici che non sempre costituiscono un piano sistema di segni. Oltre la parola c’è la sensazione, oltre il vedere il sentire. Di questo intende parlare Kieslowski , pur costeggiando territori più impervi che sfiorano la vita dopo la morte e l’ambigua parapsicologia. Lo scandaglio dell’animo umano richiede una sensibilità speciale per poter essere portato a termine. Veronica non è che il gradino intermedio di un’indagine più ampia. Per scoprire i colori della quale occorrerà immergersi in un altro, seducente spettacolo.

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Tre motivi per vedere il film:

L’attenzione ai dettagli, mai così viva.
Irène Jacob, splendida interprete.
L’ambiguità di Philippe Volter

Quando vedere il film:

Dopo aver visto Decalogo, prima di Tre colori.

Note

[1] M. Lastrucci, Ciak, 3, marzo 1991.

[2] Ibidem.

Ginevra AmadioLe immagini contenute in quest’articolo sono riprodotte in osservanza dell’articolo 70, comma 1, Legge 22 aprile 1941 n. 633 sulla Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio. Si tratta, infatti, di «riassunto, […] citazione o […] riproduzione di brani o di parti di opera […]» utilizzati «per uso di critica o di discussione», nonché per mere finalità illustrative e per fini non commerciali. La presenza in CulturaMente non costituisce «concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera».

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Ginevra Amadio
Giornalista pubblicista, laureata in Lettere e Filologia Moderna. Lettrice seriale, amante irrecuperabile del cinema italiano e francese.

1 Commento

  1. Profonda lettura di Amadio che restituisce pienamente il senso non solo del film ma della poetica del grande regista polacco. Nel film, il “caso” è occasione per andare al fondo ed indagare la condizione umana, rintracciabile in gioie e dolori nei quali ritrovarsi e riconoscersi. L’amore, è nel silenzio e nella presenza che emerge esigendo, come rileva Ginevra, “una sensibilità speciale”: ineffabile e quasi indicibile, è la certezza di una presenza trovata per “caso” e ancora occasione per ritrovarsi.

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