In nome del papa re, storie nella Roma che cambiò

In nome del papa re recensione film

“Qui non finisce perché arrivano gli italiani. Qui, arrivano gli italiani, proprio perché è finita”

Roma, 1867. L’Italia ormai è una realtà. Solo la Città Eterna non ne fa ancora parte. Il potere temporale della Chiesa resta ancorato ai suoi principi, protetto dalle truppe francesi. Il sogno della liberazione, però, non è tramontato. Persino chi rappresenta il potere capisce, ormai, che i tempi sono cambiati; come monsignor Colombo da Priverno, protagonista del film del 1977 di Luigi Magni In nome del papa re.

L’ULTIMO PROCESSO – Colombo da Priverno (Nino Manfredi) è un giudice della Sacra Consulta, ormai stanco di condanne ed esecuzioni, pronto a dimettersi dalla sua carica, a causa di una crisi di coscienza. Una notizia inaspettata, però, lo porta a tornare su i suoi passi. La contessa Flaminia (Carmen Scarpitta), sua conoscenza di vecchia data, va a chiedergli aiuto per salvare il giovane Cesare Costa a lei caro e due suoi amici Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, arrestati perché accusati (giustamente) di aver fatto saltare in aria una caserma.
 
Da buon prete, Colombo cerca di capire perché tanto interesse da parte della donna per Cesare: questa gli confessa che è il figlio e non solo suo… Il monsignore affronterà una corsa contro il tempo per salvarlo, trovandosi in mezzo all’ultimo processo eseguito dal potere temporale, affiancato e sostenuto dal fedele perpetuo Serafino (Carlo Bagno), dalla contessa e dall’amante del giovane; affrontando le più alte vette della Chiesa, come il Generale Gesuita (Salvo Randone).
 
In nome del papa re è l’ultimo capitolo della trilogia risorgimentale di Luigi Magni, girata dopo Nell’anno del Signore, ma successiva come racconto a In nome del popolo sovrano: ultima perché si svolge a pochi anni prima della presa di Roma e, quindi , la caduta del potere della Chiesa.

È, probabilmente, la pellicola più poetica che Magni abbia girato.

Oltre all’uso delle parole, la motivazione si trova nell’atmosfera decadente che vige nella pellicola. Un decadentismo intellettuale, di un forza politica gestita solo da anziani e “ribelli che muoiono sempre a vent’anni“; in una Roma spesso scura o notturna. Forza politica ben rappresentata da Salvo Randone, il cui compito non è la salvezza delle anime, ma la sola certezza che la gente creda ancora nel potere della Chiesa. Uomo senza scrupoli, ma comunque molto furbo, capace di chiedere il perdono dopo una menzogna costata la vita a terzi.

 

Salvo Randone e Nino Manfredi nella pellicola (foto di rarefilm.net)
 
Il personaggio del perpetuo Serafino è una figura semplice, comica nei suoi atteggiamenti, nella sua curiosità e nella sua invadenza. Egli è il puro. Non gli importa del perché il monsignore abbia un figlio, gli dispiace solo che non gli abbia detto. Per lui, come affermerà nel il film, “quello che conta è il pascolo” non i greggi e i pastori. Cesarino è l’intraprendenza, la gioventù che non vede ostacoli, la ribellione senza confini, capace di diventare cieca e di auto-convincersi. Pronta anche però a chiedere scusa: una ribellione perciò intelligente.

Il centro, però, di tutto il film, praticamente onnipresente in quasi tutte le scene, è il personaggio di don Colombo.

La sua formazione la racconta da sé: “Io da giovane cantavo sotto una finestra che non s’apriva mai. E proprio vicino la persiana c’era una madonnella di coccio che piangeva, per via che era l’Addolorata. Quando una sera la finestra si aprì…e venne giù una secchiata d’acqua che un altro po’ m’affogo. Restamo a guardasse io e la madonella. Io tutto fracico, lei che piagneva: me fidanzai con lei – guardando una statua della Madonna sorridendole – Un amore che ancora me dura“. Monologo che ben esprime la sua vera natura di uomo di fede e l’ultima parte lo rende un sincero. Uomo che vive tormentato dai sensi di colpa. Non dorme ormai da tempo, fuma, non mangia. Cerca di capire, ma non riesce.
 
Uomo ironico, un po’ burbero, ma pronto a porgere l’altra guancia e sacrificarsi. Cerca di capire il perché la generazione del figlio abbia “tanta rabbia dentro ma fuori non si vede”. Uomo che ormai si sente pronto a combattere i suoi colleghi. Personaggio reso unico da Nino Manfredi: nel vederlo si può tranquillamente pensare che Magni l’abbia costruito per lui appositamente.
 
IL PROCESSO – All’interno del film la scena del processo a Monti e Tognetti è la più significativa. Qui Magni inserisce la sua critica all’attualità. Sono gli anni dove la censura della Democrazia Cristiana è più spietata che mai (si pensi al tentativo di fermare la trasmissione di Mistero Buffo di Dario Fo). Sono gli anni dove la distanza fra governo e popolo è molto lunga. E in questo film, durante il processo, Magni fa dire a Manfredi frasi di denuncia, molto attuali all’epoca. Frasi che parlano di dietrismo, frasi che mettono all’erta chi governa. “Quando un esercito è in borghese, è un esercito di popolo e con il popolo ci si sbatte sempre il grugno” ne è un esempio.  Un processo-allusione dove chi ascolta sta in silenzio o, peggio, dorme.

 

Una scena del processo (foto static.vivacinema.it)

 

I CAMBIAMENTI – In tutto il film si sente sempre l’ansia o, comunque, l’imminente arrivo di qualcosa che deve succedere. Un attentato, un’esecuzione, l’arrivo degli italiani o delle guardie: qualcosa accadrà! E’ il principio o la fine di qualcosa. Non si capisce che cosa, ma qualcosa cambierà. C’è chi smania (i giovani ribelli), chi combatte affinché ciò non accade (i preti detentori del potere) e chi si arrende al fatto che non si può rimandare in eterno qualcosa (Don Colombo). Lui si arrende a questo cambiamento, anche senza capire, e sarà l’unico a reagire. Da prete, ovviamente.

3 motivi per vedere il film: 
(come scrisse qualcuno in passato)– Nino Manfredi
– Nino Manfredi
– Nino Manfredi

Quando vedere il film?
La sera. E’ un film molto divertente: le battute ironiche e satiriche riescono a strappare a tutti un forte sorriso. Film però carico di critiche e non consigliato ai ben-pensanti.

 

In nome del popolo sovrano, storie nella Roma che lottò

Francesco Fario

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Francesco Fario
Attore e regista teatrale, si laurea in Lettere Moderne a La Sapienza per la triennale, poi alla magistrale a TorVergata in Editoria e Giornalismo. Dopo il mondo del Cinema e del Teatro, adora leggere e scrivere: un pigro saccentone, insomma! Con Culturamente, ha creato la rubrica podcast "Backstage"

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