“Buongiorno, notte” e la storia che si fa finzione

buongiorno notte

Mentre è nelle sale con Il traditore, Marco Bellocchio ricorda di star lavorando a una serie tv sul caso Moro, «controcampo tutto in esterni all’ambiente chiuso di Buongiorno, notte». Del quale è bene tornare a parlare.

Titolo originale: Buongiorno, notte
Regista: Marco Bellocchio
Sceneggiatura: Marco Bellocchio
Cast principale: Maya Sansa, Roberto Herlitzka, Luigi Lo Cascio, Giovanni Calcagno, Pier Giorgio Bellocchio, Giulio Bosetti
Nazione: Italia
Anno: 2003

Soffocamento. È questa la sensazione che accompagna la visione di Buongiorno, notte e quasi si impone oltre lo svolgersi della storia, al di là del dramma etico, morale e umano che la pellicola mette in scena. Il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse sono trattati da Marco Bellocchio in ossequio a quelle linee cardine del suo cinema che lo portano a prescindere – per quanto possibile – dal riavvolgimento piano e reale della vicenda narrata, prediligendo uno sguardo intimo ma non intimista, privato piuttosto che pubblico – nazionale.

Buongiorno, notte è un film sospeso, in cui i cinquantacinque giorni del sequestro Moro sembrano svolgersi in un arco di assoluta atemporalità.

La stessa percepita e vissuta da un’Italia in apnea, sbigottita da un’azione eclatante di cui ancora oggi ci si affanna a scoprire i lati torbidi, nella cieca e sfiancante corsa al complotto interno o internazionale, al mistero celato e alla rivelazione fantasmatica.

Qualcuno ha storto il naso, come ricorda Antonio Tricomi [1], dinnanzi all’operazione di Bellocchio, che pur si distingue per aver immaginato – e dunque sperato – un esito diverso della vicenda Moro, con il sequestrato che varca la porta dell’appartamento-prigione e cammina spedito per le vie della Magliana. Un finale che dà voce al desiderio del senso comune. A tutti coloro che si chiedono, ancora oggi, cosa avrebbe rappresentato un Aldo Moro libero e liberato nel panorama politico italiano, e persino a quegli elementi delle Br che si opposero all’uccisione in nome di ragioni politiche, etiche, e di opportunità.

Ma è proprio questo dar voce ai militanti dell’epoca che per il film di Bellocchio ha rappresentato il maggiore atto d’accusa.

Giuseppe Ferrara, autore nel 1986 (quando ancora si riteneva che i “carcerieri” fossero tre e non quattro) del Caso Moro, ha accusato il collega di essere “tenero” con i brigatisti, finanche «reazionario […], antistorico, falso, omertoso» [2] in virtù di un’apparente accondiscendenza dinnanzi all’umanità di mostri da prima pagina. Sembra di riascoltare gli atti d’accusa a Leonardo Sciascia (pur imparagonabile a Bellocchio per lucidità di analisi) avanzati da Amendola, Arrigo Levi e Aniello Coppola, concordi nell’imputare all’intellettuale una «strizzata d’occhi» al terrorismo tutt’altro che veritiera.

La realtà è che l’intero arco dei Settanta con la sua storia di violenza politica appare ancora oggi un lungo fermo-immagine, una parentesi non ancora transitata dalla cronaca alla storia.

In questa prospettiva il sequestro Moro – su cui tutto è stato schiacciato – rappresenta un osservatorio privilegiato di tale tendenza all’elusione, al silenzio imposto alle voci critiche e “interroganti”, ai tabù di una narrazione che preferisce la ridicola ricostruzione di Piazza delle Cinque Lune (Renzo Martinelli, 2003) al recupero delle analisi tentate “a caldo” da Pasolini e Sciascia più di quaranta anni fa.

Buongiorno, notte non è un film-verità, né apporta nulla di nuovo all’elaborazione e al disvelamento dell’affaire Moro.

È un’opera di ricostruzione immaginata, che supera l’orlo del crinale tra fattuale e finzionale che già di per sé caratterizza la maggior parte della memorialistica degli ex militanti, in particolare il memoir da cui è tratto: Il prigioniero di Anna Laura Braghetti [3]. Esso getta uno sguardo all’interno dell’appartamento di via Montalcini dove lo statista Dc era sequestrato e lo carica di pathos e sensazioni aggiunte, che si sommano a quelle riportate dalla “vivandiera” fin quasi a schiacciarle, ricreando quel senso di soffocamento cui si accennava prima attraverso sogni (solo una volta Braghetti parla di sogni che le hanno fatto mancare l’aria) composti di immagini e musica in un crescendo di inquietante emotività, ai limiti della sopportazione.

È un effetto voluto, ricercato, il quale tuttavia non suscita empatia con i quattro brigatisti chiusi in una casa buia con le tende spesse alle finestre.

buongiorno notteIl regista piacentino, nel difendere il suo lavoro dalle accuse, ha dichiarato del resto di voler interpretare i fatti allo scopo di indagare quella «miseria affettiva» che ha portato i militanti «a perdere il più elementare senso della realtà» [4]. Quasi che il contesto storico-sociale non li rendesse parte di una storia complessa, che lui del resto taglia fuori per rinchiudere nelle mura di un interno borghese la quotidianità di militanti incerti, stanchi, campioni di un’indagine personale che di tutto può essere tacciata meno che di benevolenza o docile assecondamento.

Il suo lavoro di ricostruzione si avvale di memoriali, dichiarazioni spontanee, ricostruzioni dei fatti trasportati nella narrazione e resi per questo in maniera trasfigurata, quasi immaginata.

Certo, l’aderenza a episodi raccontati c’è, e ha rappresentato – nella sua spiazzante quotidianità – un ulteriore motivo di critica, di inverosimiglianza rimproverata senza essersi presi la briga di leggere anche solo il testo da cui il film trae ispirazione. Germano Maccari (Ernesto nel film, interpretato da Pier Giorgio Bellocchio) che esplode contro i compagni perché vuole vedere la fidanzata. Prospero Gallinari (Primo, interpretato da Giovanni Calcagno) affezionato a dei canarini che sono volati via. La stessa Braghetti (Chiara, Maya Sansa) che prepara la zuppa e si intrattiene con la vicina per simulare una normale esistenza.

Si può discutere sull’opportunità di mettere in scena tali aspetti, sull’effettivo apporto che essi posso dare alla comprensione dell’azione delle Br, slegati così come sono dal corso della storia – quella grande, globale, degli anni Settanta e quella interna, complessa, dell’organizzazione.

Lo si può fare se si guarda alla pellicola con lenti non pregiudiziali, di chi sa che un’opera filmica – tanto più se prodotta in anni in cui i giudizi etico-morali si sono cristallizzati – non può sobbarcarsi il peso di raccontare, tanto meno dall’interno, una storia italiana di mai elaborata complessità. Che la si accusi, poi, dall’altra parte, di non fare un servizio alla verità quando per verità s’intente la ricerca di fantasmi, ciò risulta ancor più errato e in qualche modo risibile.

Buongiorno, notte deve essere valutato per quello che è.

Un film d’autore di ottima fattura, che si pregia di un cast in cui spicca Luigi Lo Cascio (che interpreta Mario Moretti) e che ricostruisce con dovizia di particolari persino l’aspetto fisico dei giovani protagonisti (impressionante Bellocchio-Maccari, con le spalle perennemente curve).

La scelta dei brani musicali, i quali accompagnano le scene di maggiore impatto visivo ed emozionale, rifugge il semplice rimando ai tempi che i soli Pink Floyd suggerirebbero e si arricchisce di composizioni classiche che producono un effetto straniante, il cui apice è raggiunto nella scena in bianco e nero della parata per Stalin accompagnata dalla Marcia trionfale dell’Aida. Il continuo passaggio dal presente al sogno, reso attraverso il meccanismo della giustapposizione, permette di penetrare oltre la superficie del narrato, in quel misto di compassione e freddezza che scuote i brigatisti miseramente affettivi di Bellocchio, la cui «anestesia morale», secondo un’espressione di Anna Bravo che richiama quella del regista [5], è portata alle estreme conseguenze nella recita da automi dinnanzi alla tv, al ritmo cantilenante di «la classe operaia deve dirigere tutto».

Se c’è un passaggio in cui la rivisitazione della vicenda da parte di Bellocchio sembra sfiorare, anche solo per puro trasporto emotivo, il piano reale delle cose, esso è il momento del funerale, rievocato attraverso le immagini d’archivio della celebre cerimonia senza salma, così come era stato richiesto dallo stesso Moro.

Nella Basilica di San Giovanni in Laterano, alla presenza di un Paolo VI forse accomunato – involontariamente o meno – alle altre maschere del potere, la camera immortala i volti di quelli che Sciascia, nel suo celebre pamphlet, aveva rinominato «i fedelissimi delle ore liete» [6]. Non uno sguardo che tradisca emozione. Nessun accenno a quello «sciogliersi dalla forma» che, secondo l’intellettuale siciliano, aveva finalmente permesso a Moro di vedere il volto laido e meschino del Palazzo in cui egli stesso si era mosso. In sottofondo risuona, sempre più potente, Shine on your crazy diamonds.

È un requiem, la fine della storia – la fine delle storie.

Degli alibi di Stato, dei sogni di rivoluzione, di pezzi di verità che non si trovano perché semplicemente non esistono più, e laddove i conti non tornano resta solo un margine di incertezza accettabile perché insita in tutte le cose. Ma è un bisogno indomito e impellente quello di non riuscire a fermarsi, di continuare a immaginare un altro esito, una diversa realtà. Buongiorno, notte in questo senso è l’emblema dell’inafferrabile che sempre accompagnerà questi eventi, almeno finché non si avrà il coraggio di analizzarli e superarli.

Tre motivi per vedere il film:

  • Una colonna sonora che entra sotto la pelle.
  • Roberto Herlitzka, che dona a Moro quell’«espressione di stanchezza e noia» di cui parlava Sciascia.
  • La scena finale, perfetta recita di un “dramma del potere”.

Quando vedere il film:

Dopo aver letto i testi giusti ed essersi informati sulla storia di quegli anni per operare i dovuti confronti. E le dovute valutazioni.

 

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Cantando sotto la pioggia, l’irresistibile magia del musical

 

Ginevra Amadio

 

 

[1] A. Tricomi, Buongiorno, notte. Perché all’utopia seguì il disincanto, in Id., La Repubblica delle Lettere, Macerata, Quodlibet, 2010, p. 15.

[2] P. D’Agostini, Buongiorno, notte di Bellocchio va in TV. E suscita polemiche, in “la Repubblica”, 5 giugno 2006.

[3] A. L. Braghetti – P. Tavella, Il prigioniero, Rizzoli, 1998.

[4] P. D’Agostini, Buongiorno, notte di Bellocchio va in Tv, cit.

[5] A. Bravo, Un equilibrio fragile: la donna tra libertà e violenza, in AA.VV., Il libro degli anni di piombo, M. Lazar – M.-A. Matard-Bonucci (a cura di), Milano, Rizzoli, 2010, p. 72.

[6] L. Sciascia, L’affaire Moro, Palermo, Sellerio, 1978, p. 110.

Ginevra Amadio
Giornalista pubblicista, laureata in Lettere e Filologia Moderna. Lettrice seriale, amante irrecuperabile del cinema italiano e francese.

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