Il Filo Nascosto, cinquanta sfumature di ossessione

Il Filo Nascosto

Sapevo sarebbe arrivato questo momento, quello in cui avrei dovuto parlare di Il Filo Nascosto. Mica facile.

Come si può descrivere e commentare, dopotutto, la perfezione? Con questo non voglio subito dire che il film sia perfetto, un risultato che spesso non è nemmeno positivo. E poi sarebbe una partenza fin troppo esagerata. Per perfetto intendo il mondo col quale Il Filo Nascosto arriva alle cose, le capisce, le approfondisce e le mostra.

Questo è possibile solo quando le persone al comando sono al massimo delle proprie capacità, e soprattutto ne hanno la consapevolezza. Paul Thomas Anderson, raggiunta la piena maturità artistica e personale, è in grado di scriver e dirigere senza separare forma e sostanza, ma anzi mischiandole ripetutamente. Daniel Day-Lewis, per il quale nel corso degli anni sono finiti aggettivi e aneddoti, riesce ancora una volta ad aggiungere sfumature e piccoli impercettibili carichi emotivi alla sua recitazione: prendiamo ogni singolo gesto con le mani, il modo con cui inarca gli occhi dal basso verso l’alto, e soprattutto il modo illuminante con cui sorride. E poi c’è lei, Vicky Krieps, che venuta dal nulla riesce a tenere testa, se non talvolta superare per profondità emozionale, al suo compagno di scena.

Non è un caso che Il Filo Nascosto sia davvero la storia di queste tre figure. Non si uniscono solo forma e sostanza, ma anche finzione e realtà. Il celebrato stilista Reynolds Woodcock è sia Paul Thomas Anderson, un famoso artista che rifiuta le etichette, sia Daniel Day-Lewis, un uomo che ha bisogno dell’assoluta perfezione, tempo e calma per compiere il proprio lavoro. E poi arriva lei, appunto, la donna dal nulla che cambia tutto ciò che prima si pensava di sapere.

Non sto delirando, ma Il Filo Nascosto nasconde molto della saga di 50 Sfumature.

C’è l’ossessione, la mania del controllo, il bisogno del controllo, la necessità di far vedere all’altro che si è forti quando in realtà si è deboli, la scoperta di un sentimento che sconquassa ogni abitudine e regola di vita, l’impellente quanto doloroso motivo di vivere solo in presenza dell’altra persona.

La grandezza del film sta tutta qui, essere tutto sommato semplice ma al tempo stesso diventare enormemente complicato. Addirittura perverso, a tratti. Fili intrecciati, appunto, che si uniscono in unico tessuto, passando di ago in ago, asola in asola, tessuto in tessuto, e si ricamano insieme pur provenendo da stoffe diverse. In questa seconda fase della sua carriera, Il Filo Nascosto è indubbiamente il film più accessibile di Paul Thomas Anderson. Una storia d’amore, una confezione classica, un umorismo trascinante che sbuca fuori quando meno te lo aspetti. E poi proprio lì mette la zampata, quel momento che ti fa pensare a quanto assurdo sia quel sentimento, quella scena che ti fa domandare quanto pazzi ma alla fine infinitamente reali siano i due protagonisti.

Forma e sostanza, finzione e realtà, semplicità e complessità, testa e cuore. Antitesi che Paul Thomas Anderson mette insieme, intrecciando i fili appunto, inclusa quella di un lui e di una lei. Come claustrofobiche sono le scenografie delle case di Woodcock, dei suoi atelier, così sono i suoi abiti, che per quanto bellissimi sembrano soffocare, schiacciando la spontaneità in un oceano di perfezione costruita. E allora claustrofobico è il sentimento, sia quando parte dalla testa pensando che importante sia capire e controllare l’altro, sia quando arriva al cuore sapendo che non ci sono muri che possano fermare le emozioni.

Si concentra tutto sul controllo altrui Il Filo Nascosto. E allora che la domanda che pare uscire è solo una: vale davvero la pena amare?

Se questa è la domanda la risposta è solo una, ovviamente sì. Ma non vuol dire che il film non possa metterci in guardia sulle conseguenze. La complessità di Il Filo Nascosto è proprio quella di parlare costantemente su due piani. La cinica e razionale analisi dei personaggi lascia spazio via via al calore del loro sentimento incontenibile, proprio come la l’ossessione e la ricerca della perfezione di Woodcock – ed ad un certo punto anche di lei – cede di fronte alla realtà interiore. La magia del film, allora, sta nella capacità semplicemente irreale, semplicemente impossibile, di cogliere il non detto. Il non mostrato, quasi quello falsamente provato.

Non siamo in presenza solo di un film intrinsecamente romantico, ma forse del primo film che ha capito, e mostrato, cosa è davvero l’amore. Il non capirsi, prima di tutto. Il non riuscire a comunicare quando e quanto e come si vorrebbe. Il viscerale desiderio di stare con l’altro. L’insolubile dolore che si prova, al tempo stesso, stando con l’altro. Nel gioco delle antitesi su cui è costruito Il Filo Nascosto finisce per rientrare l’amore stesso: il sentimento più meraviglioso che però provoca i dolori più potenti.

Quel sentimento che racchiude il tormento e l’estasi, il bisogno di scappare dall’altro e la necessità di entrare in simbiosi totale con l’altro. Paul Thomas Anderson, non chiedetemi come, riesce a mettere tutto questo film, a far esprimere la sofferenza e l’insofferenza, la necessità di dover cambiare quando si conosce qualcuno e la bellezza del sacrificio. Il travaglio perché l’altra persona non è come si vuole, quando lei sbaglia la cena per lui, oppure lui che non vuole andare a ballare con lei. Le incomprensioni e la passione, Il Filo Nascosto guarda oltre la magia dell’amore per andare alla radice della sua vera essenza. L’emotività dirompente del vero senso dell’amore è nella scena di capodanno, quando entrambi vogliono stare con l’altro ma non ci riescono, e già vedono e capiscono quanto perdersi sia più facile di trovarsi.

Da qui deriva una fame intensa, la vera chiave di tutto.

La fame dell’altro, la fame del desiderio, la fame di provare qualcosa che faccia sentire vivi. Provare qualcosa a tutti i costi, mischiare dolore e bellezza. Mangiarsi costantemente, se stessi e l’altro, mangiarsi il cuore per ciò che si prova e mangiare i sentimenti altrui con i propri. Amare è perverso, è cannibalizzarsi vicendevolmente. Innamorarsi è essere un po’ masochisti, tutto sommato. Ed è necessario. Il film intercetta quel bisogno di nutrirsi l’uno dell’altro, e del sentimento in sé, del quale non si può fare a meno. Un bisogno smisurato che supera tutto.

Vicky Krieps si è nutrita di questa esperienza. Daniel Day-Lewis da sempre si nutre visceralmente dei personaggi che interpreta. Paul Thomas Anderson si nutre dell’arte che crea. E noi, in questo gioco di rimandi, abbiamo bisogno sconfinato di nutrirci del suo strepitoso cinema. Ormai non potremmo onestamente farne a meno.

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Emanuele D’Aniello

Emanuele DAniello
Malato di cinema, divoratore di serie tv, aspirante critico cinematografico.

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