Il confine tra finzione e realtà è molto labile in Suburra: la serie.
Lo abbiamo visto quando abbiamo recensito i primi 2 episodi, lo confermiamo ora che abbiamo visto in anteprima tutte le 10 puntate che compongono la prima stagione. L’ormai celeberrimo “mondo di mezzo” dei processi per associazione mafiosa a Roma è letteralmente citato nella serie, usata come descrizione per una delle tante figure che costellano questa serie corale. Forse, in un certo senso, è troppo.
Citare così nettamente una fonte d’ispirazione, senza perifrasi, senza coperture, non è solo il segno di poca fantasia narrativa/creativa. È soprattutto il segno di come gli autori sguazzino nel già visto, nel già sentito, nel banale.
Suburra: la serie è sicuramente un buon prodotto, su questo non c’è dubbio. Dopotutto, se così non fosse Netflix non ci avrebbe messo le mani e il proprio marchio per trasformarla nel suo primo prodotto italiano al 100%. Ma ormai, e questo è altrettanto innegabile, non possiamo più usare l’aggettivo “diverso” come complimento per staccare la serie dal resto del panorama tv italiano. Le ombre di Romanzo Criminale e soprattutto Gomorra non sono qui per caso. La serialità italiana ha finalmente capito come avere successo, e ora non si stacca più dalla formula. Non esce più dal genere crime, non esce più dall’indagine controluce del cattivo dall’animo buono, non abbandona più i territori del degrado sociale. Gruppo corale di strada e amicizie tradite, tutte le serie citate hanno in comune questa caratteristica fondante.
Suburra: la serie si nutre di luoghi comuni, abbonda di cliché, e non riesce mai a sorprendere lo spettatore. Persino lo strumento del flash forward, usato per aprire le puntate con una scena che arriverà solo nel finale, è abusato fino alla fine.
Forse è giusto ribadire ancora un concetto: la serie è ben fatta, nella confezione e nella recitazione. Il problema, semmai, è una congenita incapacità di liberarsi di un senso di deja-vu continuo. L’assenza di sorpresa, una trama resa più complicata di quanto in realtà sia, l’assenza di momenti leggeri. Dieci episodi vissuti col pilota automatico, verso una meta sicura.
L’elemento migliore, allora, è non a caso quello che esula dagli aspetti criminali e dal puro intreccio. Suburra: la serie convince nel racconto di formazione criminale, nel ritratto della crescita dei suoi protagonisti giovani, nella ricerca della personale identità di ognuno di loro. Vedere tre giovani che cercano di mettersi in proprio per liberarsi dei propri padri, reali o immaginari, aggiunge quel pizzico di emancipazione generazionale sempre caro al tessuto italiano. La criminalità è una monarchia che si passa di padre in figlio, ma talvolta i giovani vogliono prendersi tutte le fette della torta perché gli anziani si attardano a liberare il posto.
Speriamo che tale elemento interessante diventi anche una metafora benaugurante per la serie stessa. Suburra: la serie merita di liberarsi dei propri modelli, televisivi e di cronaca, per diventare un prodotto indipendente.
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Emanuele D’Aniello