Girlboss, la serie sbagliata al momento sbagliato

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Sono fortunatamente rare, ma esistono anche serie tv che, oltre ad essere belle o brutte, sono soprattutto fastidiose.

Girlboss, la cui 1° stagione è disponibile interamente su Netflix in tutto il mondo dallo scorso 21 aprile, rientra come avrete facilmente intuito in questa categoria. Scritta da Kay Cannon, che si è fatta le ossa nel gruppo di sceneggiatori di 30 Rock, sicuramente un’ottima palestra per il genere comedy, la serie è tratta dall’omonima autobiografia di Sophia Amoruso, giovane imprenditrice che nel 2006, ad appena 23 anni, vendendo abiti vintage su Ebay è diventata una delle donne più ricche del mondo.

Già da qui, però, abbiamo i primi problemi che si riflettono sulla serie.

Il percorso della Amoruso nella vita reale, così come quello della sua fittizia controparte nella serie, non ha le caratteristiche né del colpo di genio né del viaggio personale. Sophia è un personaggio egocentrico, scortese, arrogante, indisponente, menefreghista e accentratore che passa su tutto e tutti pur di avere successo col minor impegno possibile, come lei stessa dichiara. Ora, il problema non è avere un personaggio negativo come protagonista, poiché l’epoca d’oro della serialità tv americana è coincisa proprio con l’ascesa degli anti-eroi al centro della narrazione. Il fatto è che Sophia di anti-eroe non ha nulla, perché rifugge dalle problematiche e della complessità lasciando intatti solo gli aspetti negativi del suo carattere.

Lo vediamo nel rapporto col padre, con i conoscenti, addirittura con la sua migliore amica (probabilmente la cosa più riuscita della serie): Sophia passa come un carrarmato, riconosce momentaneamente i proprio errori il più velocemente possibile, e poi la volta dopo ripete i medesimi sbagli. Definire Girlboss iper-indulgente con sé stessa è dire poco. E per una serie disponibile tutta insieme, per cui quindi è facile cedere alla tentazione del binge watching, l’effetto ripetitività della struttura degli episodi è spesso deleterio.

Girlsboss pretende di essere una serie femminista ma lo fa con i modi più sbagliati possibili.

Non basta infatti mettere al centro una donna di successo per meritarsi l’aggettivo di femminista, che invece la serie vede semplicemente come un marchio, o peggio ancora come un hashtag, da affibbiare alla propria influenza. Non c’è l’empowering del ruolo della donna nella società, non c’è l’identificazione del genere e delle sue uniche capacità di fronte agli ostacoli, non c’è la riscoperta del valore delle proprie potenzialità, non c’è la ricerca delle proprie passioni coltivata con l’aiuto del prossimo. Più che il femminismo degli anni 2000, quindi, Girlboss rappresenta l’antidoto, ovvero lo spirito arrivista e privo di merito portato ai massimi livelli dalle Kardashians, in cui conta solo fare soldi ma se possibile senza lavorare.

E’ un peccato che il sentimento primario verso Girlsboss sia il fastidio. Perché la serie sa anche essere molto divertente, fresca e dinamica, ancorata da una buonissima e tenacissima performance di Britt Robertson, il cui volto pulito impedisce davvero di odiare completamente il suo personaggio, e ricca di sorprendenti idee visive (l’episodio sui forum online su tutti).

Davvero, perché dovremmo tifare o essere felice del successo di Sophia? Il problema di fondo, a cui la serie naturalmente non sa rispondere, è tutto qui. Se Girlboss stata ambientata nello yuppismo capitalista degli anni ’80 avrebbe avuto un senso, ma vista nel cuore del percorso sociale degli ultimi anni il suo peccato originale è troppo evidente per essere perdonato.

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Emanuele D’Aniello

Emanuele DAniello
Malato di cinema, divoratore di serie tv, aspirante critico cinematografico.

1 Commento

  1. Mi dispiace constatare che sono una dei pochi che questa serie tv l’ha amata… Io credo che il bello stia proprio nel personaggio “scalcagnato” di Sophie, il suo menefreghismo, la sua apparente superficialità. Per me questa serie televisiva è estremamente femminista appunto perché la protagonista pensa solo a se stessa, mette se davanti agli altri, come ogni imprenditore di successo appunto. E sono consapevole che questa visione possa dare fastidio, appunto perché non si è abituati a vedere donne “egoiste”, che pensano al denaro, come invece sono stati più volte ritratti uomini. Siamo abituati a vederle mentre si prendono cura degli altri, sono dedite a casa e famiglia, all’amore o al volontariato. Sophie invece è un personaggio unico, una vera “girlboss” che non guarda in faccia a nessuno e sì, forse viziata, forse arrogante, ma pienamente, e nel vero senso della parola, libera e coerente a se stessa.
    Per favore riguardatela con un’altra ottica, perché vi posso garantire che questa serie merita davvero!

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