Vice, comandare nell’ombra è un vero superpotere

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Non è possibile, secondo me, scindere Vice dal precedente film del suo regista, La Grande Scommessa. I due titoli mi sembrano letteralmente film gemelli, non solo per lo stile adottato ma soprattutto per la finalità bramata. Penso di aver capito cosa Adam McKay abbia cercato di fare con questi due film, anzi, lo sento proprio pensare e ragionare:

“Sono stato per anni un autore di commedie e, per quanto abbiano avuto enorme successo di pubblico e critica, voglio dedicarmi ad altro. Non perché mi creda un profeta o un grande artista, ma perché il mondo moderno fa talmente schifo che è impossibile, per chi fa cinema, mettere la testa sotto la sabbia. Voglio parlare allora di economia e politica, cioè quello che sta andando a rotoli in America. Ma voglio farlo senza retorica, senza didascalie, senza noia. Certo, ne parlerò in maniera assolutamente partigiana, perché non posso fingere di essere improvvisamente imparziale. Ma ho bisogno che ciò che voglio comunicare raggiunga il più ampio e stratificato numero di persone. Per farlo posso usare solo le armi che conosco, quelle dell’intrattenimento e del divertimento, perché non posso diventare un altro tipo di regista. Io questo tipo di cinema so fare, col mio pubblico ha sempre funzionato quindi lasciatemelo fare ancora, lo voglio applicare a queste storie serie senza farle diventare seriose.”

Nonostante il lungo virgolettato, non ho avuto telefonate segrete con McKay o sue visioni mistiche. Ma quanto ho scritto è esattamente quello che il regista ha messo, sotto forma di cinema, nei suoi due film di questa nuova carriera semiseria.

E se l’approccio ha funzionato benissimo con La Grande Scommessa, perché l’economia non è una cosa che tutti capiscono e diventa ancora più noiosa e criptica quando si prova a spiegare, quindi quello stile dinamico, comico e satirico ha reso fruibile il tema meno cinematografico possibile, non possiamo dire lo stesso ora con Vice.

Perché, al contrario, la politica non è fisica quantistica, o economia appunto, e tutti la capiscono. O meglio, tutti se ne interessano, chi molto e chi vagamente, e tutti mettono parola su personaggi e azioni che viviamo o subiamo quotidianamente. E perché, oltretutto, la satira politica non è certo un genere nuovo visto al cinema.

Pertanto, ed è paradossale dopo tutta la premessa fatta, Vice funziona molto quando si limita ad essere un film politico convenzionale. Sta in piedi e funziona perché il suo tema, decifrare la figura nascosta di Dick Cheney, vicepresidente con le mani in pasta ovunque, diventa esegesi di tutti i problemi dell’America contemporanea. Anzi, il film analizza argutamente, scandendo decenni e passaggi di amministrazione, come quella perdita di valori e ossessione del potere sia andata formandosi fino a sbilanciare la spinta sociale dell’America bianca e puritana verso il recente conservatorismo radicale.

Il Dick Cheney del film, nella sua multiforme tenacia che lo fa diventare tappezzeria di una stanza senza farsi notare ma rimane a bisbigliare nelle orecchie in maniera faustiana, è sia la figura di un uomo che sa muovere i fili senza sporcarsi le mani direttamente, sia manifesto metaforico del potere incancrenito in ogni sfera d’azione pubblica. In questo doppio specchio di personaggio-simbolo è ancora più essenziale la prova di Christian Bale, perché sparisce letteralmente nel trucco e forma fisica di Cheney ma, al tempo stesso, col timbro vocale e con i gesti manieristi fa sempre vedere che sta recitando. Bale c’è e non c’è, insomma, esattamente come il vero Cheney sulla scena politica.

Quando poi il film vira sulla commedia, sull’assurdo, sullo stile volutamente esagerato di McKay che punta all’intrattenimento sempre e comunque, Vice tracolla. Sia chiaro però, Vice fa ridere e, appunto, è così dannatamente godibile – l’obiettivo di tale stile è proprio questo – ma abbinandosi alla politica perde quel significato che dovrebbe far scattare una qualche scintilla di rabbia, di fervore, di indignazione, di favore, anche solo emotiva. Questo stile smorza ciò che mostra invece di graffiare, rende accettabile e concepibile l’inaccettabile, e diverte laddove invece servirebbe il ragionamento e non la risata.

Le commedie satiriche, se ne potrebbero citare a decine, sono vincenti perché erodono la forma creata ad hoc dai potenti smascherando le assurde debolezze, e spesso nefandezze, che nascondono. Abbattono un muro titillando gli spettatori con un’audacia che pensavano non fosse concessa.

Invece Vice quel muro lo lascia in piedi. Sfrutta la risata non per combattere, ma per alleggerire una visione che invece funziona proprio perché non dovrebbe essere leggera. Ci lascia andare a casa senza aver appresso una cosa in più di quante non ne sapessimo in partenza.

Adam McKay, con Vice, ha voluto realizzare un film adulto senza però perdere la spinta fanciullesca che gli è propria. Ma una decisione, una volta ogni tanto, va presa, e non si può fare cinema volendo tutto senza sacrificare qualcosa. Soprattutto, non si può fare cinema senza avere la capacità di adattarsi o evolversi o rielaborare il già visto.

Insomma, penso di aver capito cosa McKay abbia voluto fare con Vice. Ora però lui deve capire cosa voler fare da grande.

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Emanuele D’Aniello

Emanuele DAniello
Malato di cinema, divoratore di serie tv, aspirante critico cinematografico.

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