La rinascita del cinema italiano è “Veloce Come il Vento”

Diciamolo subito in apertura, nel modo più semplice ma fondamentale: Veloce come il Vento è davvero un bel film.

Lo so, è piuttosto strano iniziare quella che dovrebbe essere l’analisi di un film con un giudizio sommario e sbrigativo, per quanto positivo. Alcuni potrebbero dire che è un mettere le mani in avanti. In realtà, voler premettere immediatamente la qualità del film è quasi una necessità terapeutica per far scemare lo stupore.
Un film italiano di macchine e corse di macchine. Un film italiano di genere sulla velocità. Con Stefano Accorsi. Ed è bello. E lo sto scrivendo da sobrio.
Matteo Rovere al terzo film in carriera cambia totalmente registro e affronta il cinema di genere (quello delle corse oltretutto, uno dei filoni più abbandonati in Italia) con la voglia di captare le “americanate” ed inserirle in un contesto prettamente nostrano, e l’uso del dialetto già rende l’idea. Veloce come il Vento non è un dramma familiare mascherato da film sulle corse, Veloce come il Vento è l’analisi delle difficoltà della vita, soprattutto dei rapporti interpersonali, affrontata con la filosofia delle corse in pista, perfettamente coerente con i propri protagonisti. Molto liberamente ispirato ad una storia vera, il film di Rovere è testardo come i personaggi nel raggiungere un traguardo che simboleggia l’armonia familiare e la realizzazione personale: se Giulia in pista corre per vincere il campionato (le immagini del vero campionato GT italiano ed i veri stunt sono una chicca da applausi), che non è una vittoria sportiva fine a sé stessa ma serve a salvare la propria casa, allo stesso modo in mezzo alle strade di Imola, inseguita da motociclisti poco simpatici, Giulia corre per mantenere in pista la propria vita e mantenere sotto controllo i propri problemi nell’unico modo che conosce: col piede sempre schiacciato sull’acceleratore.
Matteo Rovere fortunatamente conosce anche l’uso del freno, ed è quello che applica con precisione alla sceneggiatura. Si potrebbe obbiettare che è molto studiata a tavolino e fin troppo calibrata, con moltissimi argomenti – l’unico vero difetto del film è infatti l’eccessiva durata, si potevano evitare un po’ di ripetizioni – e qualche colpo di scena telefonato, ma Rovere riesce a trasformare la struttura molto classica, i momenti già visti e rivisti da tipico cinema sportivo americano, in punti di forza. La necessità di avere una seconda possibilità di Loris, e la voglia di riscatto e redenzione personale di Giulia, tutti traguardi da superare attraverso il trionfo sportivo, sono classici elementi visti in tanti film del genere (incluso il canonico montaggio degli allenamenti) ma qui sono convincenti grazie alla connessione emotiva con le motivazioni dei personaggi. In particolare è convincente il ritratto di Giulia e il modo sereno con cui il film mostra una ragazza gareggiare in un mondo di maschi: non c’è retorica, non c’è ruffianeria, non ci sono scontate battute a riguardo o sottolineature trionfali, è tutto normale e forse questo è l’aspetto più riuscito del film.
E poi c’è l’elefante nella stanza che ha nome e cognome: Stefano Accorsi. Probabilmente molti, entrando in sala, non avevano dubbi sul film, quanto pregiudizi sulla qualità attoriale di Accorsi. Li capisco uno ad uno questi ipotetici spettatori. Eppure sono stato il primo a ricredermi, perché Accorsi non solo funziona, ma è effettivamente bravo. E’ indubbio che la prova trasformista aiuti sempre, e qui non c’è ipocrisia, c’è proprio un drogato azzeccato pure nell’aspetto, dai denti marci ai capelli unti, ma Accorsi è bravo nel calarsi totalmente nel personaggio, con l’espressione spesso disorientata e gli occhi semichiusi che raccontano una storia. Per la prima volta da quando lo vedo non si nota che Accorsi stia recitando, e questo è già un trionfo. E poi indubbiamente è molto convincente la giovane Matilda De Angelis, che a soli 20 anni colpisce soprattutto per la determinazione e la cattiveria con cui morde un ruolo delicatissimo, chiamata a bilanciare le responsabilità della vita quotidiana alla irresponsabilità della pista.
 
Veloce come il Vento, a poche settimane dall’uscita di Lo Chiamavano Jeeg Robot, a pochi mesi dall’uscita di Suburra (che personalmente non mi è piaciuto, ma ha ottenuto un ottimo riscontro generale) è la prova non solo che il cinema di genere in Italia è ancora vivo, ma è la conferma che nel nostro paese ci sono autori giovani, autori nuovi, ricchi di talento, visione e grande capacità nel prendere le idee del cinema straniero per poi rielaborarlo nella nostra realtà e con la propria sensibilità. Veloce come il Vento soprattutto funziona perché capisce quali tasti premere e quando farlo: prendiamo la scena in cui Loris è per la prima volta al box di Giulia e prende le cuffie per aiutarla, è una scena semplicissima, quasi ovvia, vista chissà quante volte, ma quanto è emotivamente efficace?
 
Emanuele D’Aniello
Emanuele DAniello
Malato di cinema, divoratore di serie tv, aspirante critico cinematografico.

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