USS Indianapolis: Cinquant’anni alla deriva per la ragion di stato USA

La manipolazione dell’eroe nella retorica della ragion di stato affonda l’USS Indianapolis insieme agli USA.

È la storia dell’ennesimo capitolo della discutibile storia bellica degli Stati Uniti, messa in cantina in attesa dei tempi giusti per essere digerita dalla morale pubblica. Riesumata in un quotidiano nel quale le brutture, gli interessi e i giochi di potere sono così frequenti da non scalfire più di tanto la morale dell’uomo comune davanti al dramma della USS Indianapolis.

Quegli inconsapevoli martiri oggi riemergono dall’oscurità, grazie alla sceneggiatura di Richard Rionda e Cam Cannon per Hannibal Classic. Il contesto originale del film riesce a sottrarlo dal rischio di scadere in logiche scontate per film di questo genere. Anche se non aggiungerà una pagina al libro dei grandi capolavori cinematografici, rimane un film che si lascia apprezzare.

La pellicola segue diversi filoni narrativi alcuni dei quali incidono più degli altri con un inizio quasi da musical vecchio stampo. A un certo punto sembra imminente che i protagonisti si trasformino in novelli Gene Kelly e Frank Sinatra per iniziare a cantare e a ballare. Le scene degli esterni sono troppo pulite quasi teatrali, strade, marciapiedi ed interni sono talmente perfetti da non ricreare l’ambientazione vintage necessaria per scaraventare lo spettatore indietro nel tempo.

uss indianapolis film

Le luci della strada, le macchine e le persone, fanno pensare immediatamente al teatro di posa, manca solo il regista che da il ciack alla scena davanti alle macchine da presa. Dopo la prima parte il film migliora nettamente, dal punto di vista prettamente cinematografico le scene a bordo nave riescono a restituire anche nei dialoghi, l’innocenza ventenne di quei poveri giovani mandati allo sbaraglio.

I volti interiori del Capitano McVay

La scelta di Nicolas Cage per la parte del Capitano Charles McVay si rivela azzeccata. La maschera dell’attore si presta perfettamente ad interpretare il tormento emotivo attraversato dal protagonista, tra senso di responsabilità, dovere e il significato personale da attribuire al valore di essere uomo. Tutt’altro ufficiale rispetto al “Capitano Corelli” e più convincente rispetto alle ultime prove.

Gli altri personaggi ruotano intorno a lui, caratterizzando la spavalderia nazionalistica e ingenua delle diverse personalità tipiche dei soldati americani del tempo. La regia di Mario Van Peebles scandaglia  anche il lato  nipponico del dramma e il peso della responsabilità portata dal Comandante Hashimoto, interpretato da Yutaka Takeuchi. Si focalizza sulla barbarie morale della guerra incomprensibile anche per chi porta a compimento la missione.

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Nel bel mezzo la deriva nell’oceano, che il regista ha la bravura di non rendere pesante e scontata attraverso i soliti clichè. Gli squali no, quelli non sono frutto di un arricchimento della sceneggiatura, ma furono una presenza costante per i superstiti decimati dai predatori come il peggiore degli incubi reali. Come tutte le grandi produzioni abbonda di ricchezza tecnica e le scene del naufragio della USS Indianapolis lo dimostrano, anche se in maniera misurata e senza esagerazioni.

La verità che ha atteso cinquant’anni per essere rivelata

Le fasi processuali avrebbero meritato forse uno sviluppo più ricco, per aumentare l’evidenza di un meccanismo brutale che le logiche di governo non esitano ad attuare pur di scaricare le proprie responsabilità. Il modo in cui si cancella l’onore e la caratura morale di un uomo condannandolo alla morte interiore. Una accusa indegna, lavata solo da Clinton a distanza di cinquant’anni. Ma forse la riabilitazione del Capitano McVay è ancora un argomento troppo recente e scomodo per gli americani, a cui nemmeno il web sembra dare troppo risalto.

Nell’insieme il film scorre  agile e non manca nemmeno la sfumatura romantica, ma senza assumere toni melensi. Inserita quanto basta per ricordare gli intrecci umani di vite strappate alla normalità di sogni comuni. Rimane la sensazione di non riuscire a capire come la guerra si rifletta realmente negli uomini che l’hanno vissuta e di come ignorandone le pene, i vincitori scrivano la storia a loro uso e consumo.

Bruno Fulco

 

Bruno Fulco
Iscritto all’Ordine dei Giornalisti e diplomato presso l’Associazione Italiana Sommelier, da sempre appassionato di enogastronomia come veicolo di scambio e collegamento tra le diverse culture. Viaggiatore entusiasta specie nelle realtà asiatiche e mediorientali. La fotografia completa il bouquet delle passioni irrinunciabili con particolare attenzione al reportage. Ricerca ostinatamente il modo di fondere questi elementi in un unico elemento comunicativo.

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