“Jurassic World? Non sono un fan!”. Voglio iniziare così: mettendo fin da subito le cose in chiaro e, per farlo, ho deciso di prendere in prestito una battuta che Ian Malcom, lo studioso del caos per eccellenza, dirà all’interno del sesto capitolo del franchise di Jurassic Park.
Nel bene o nel male, nel 2015 Jurassic World aveva dato il via alla nuova trilogia ispirata al romanzo di Michael Crichton, permettendo a vecchi e nuovi spettatori di visitare un parco a tema giurassico da sogno, tramutatosi ancora una volta in un incubo mortale. Tra sequel, reboot e omaggio all’iconico film di Steven Spielberg, la forza della nuova narrativa stava in un rapporto uomo-dinosauro in parte inedito. Se non siamo rimasti stupiti nel vedere ancora una volta l’essere umano che gioca a fare Dio, ostinandosi a fare esperimenti scellerati con il DNA animale, lo siamo rimasti di fronte al protagonista di questa trilogia: Owen Grady, interpretato da Chris Pratt. L’addestratore di Velociraptor portava con sé tutta la novità di questa fase, mostrando empatia e rispetto verso gli esseri preistorici, lasciando sottotraccia un messaggio ambientalista che sarebbe poi stato ampliato in seguito.
Una scelta azzardata, dato che la narrativa si basa sulla vicinanza a esseri straordinariamente pericolosi quale il T-Rex e compagni. Se imbocchi quel cammino, tu sceneggiatore devi essere consapevole di trovarti nel bel mezzo di un campo minato; cosa che probabilmente Colin Trevorrow, burattinaio dell’intera trilogia, non ha realizzato.
In Jurassic World – Il regno perduto, l’imminente eruzione vulcanica a Isla Nublar pone la società di fronte a un dilemma etico importante: i dinosauri, che l’uomo ha riportato artificialmente in vita, meritano di essere salvati?
Come ben sappiamo, e come abbiamo già visto anche nella trilogia originale, il ritorno sull’isola giurassica è obbligato ma, puntualmente, c’è un disegno oscuro alle spalle dei preistorici animali. Ancora una volta il “milionario cattivone” si è esposto per salvare le specie preistoriche da morte certa unicamente per scopi personali: venderli al miglior offerente, creare ibridi in laboratorio, addestrare armi letali senzienti che possano fedelmente rispondere agli ordini del loro umano padrone.
Non è molto originale, vero? Le già fragili basi poste con il reboot del 2015 iniziarono pericolosamente a vacillare ma la speranza era data dall’unico, vero obiettivo del quinto capitolo del franchise: liberare i dinosauri tra gli uomini.
Ed eccoci finalmente arrivati a Jurassic World – Il domino, il capitolo conclusivo di questo viaggio rocambolesco che, come dice lo stesso titolo, avrebbe dovuto mettere in palio il titolo di “specie dominante sul pianeta”. L’umanità avrebbe dovuto affrontare il dilemma più grande, trovandosi a condividere il pianeta con una minaccia pericolosa e imprevedibile.
Purtroppo, non è stato nulla di tutto ciò.
Hai fatto una promessa a un dinosauro?
Sono passati quattro anni dall’eruzione del vulcano di Isla Nublar e i dinosauri hanno iniziato a vivere a stretto contatto gli esseri umani. Immediatamente, è nato un mercato nero per la compravendita degli animali giurassici, così come veri e propri allevamenti intensivi. Claire Dearing e Owen Grady (Bryce Dallas Howard e Chris Pratt) portano avanti una lotta personale per sabotare questi traffici, cercando di portare in luoghi sicuri i dinosauri che vivono allo stato brado.
Tuttavia, l’impegno primario della coppia protagonista è quello di tenere al sicuro la piccola Maisie (Isabella Sermon), ricercata per la sua natura di clone della figlia di Sir Lockwood. Il desiderio di libertà della ragazza la porterà dritta tra le grinfie di un gruppo di bracconieri intenti a pedinare Owen per scoprire la posizione di Blue, il Velociraptor addestrato a Jurassic World che, nel frattempo, ha dato alla vita un cucciolo: Beta. Entrambe verranno rapite e l’ex addestratore prometterà a una furiosa Madre-Raptor che farà qualsiasi per riportarle entrambe a casa, sane e salve.
Dall’altra parte dello stato, la dottoressa Ellie Sattler (Laura Dern) sta indagando su una specie mutante di locusta che minaccia di distruggere l’intera catena alimentare. Le ricerche portano dritte alla Biosyn, una multinazionale guidata da un visionario multimilionario che ha riunito tra le Dolomiti centinaia di dinosauri, per poterli proteggere e studiare. L’ex paleobotanica si rivolge dunque alla vecchia conoscenza Alan Grant (Sam Neill) per aiutarla a intrufolarsi nei laboratori della Biosyn, sfruttando l’invito di un vecchio amico che lavora nella struttura alpina: Ian Malcom (Jeff Goldblum).
Nessuno ha parlato di insetti..!
Anche questa è una citazione tratta direttamente dal Jurassic World – Dominion. Una battuta che rende evidente quanto la produzione sia perfettamente conscia di non aver mostrato al pubblico quanto aveva promesso. Nei vari trailer che hanno anticipato l’uscita nelle sale, così come in tutta la campagna di marketing, nessuno aveva mai parlato di locuste giganti con DNA risalente al cretaceo. E non è di certo l’aver tenuto nascosta la vera linea narrativa il principale il problema. L’errore sta nel fatto di aver promesso, già 4 anni fa, di portare sul grande schermo la grandezza e la letalità della specie più pericolosa che abbia mai camminato sul pianeta nel mondo dell’uomo moderno (ricordiamo l’attacco di pteranodonti a Las Vegas al termine di Il regno perduto), riducendola poi a una mera comparsata.
Intitolando il sesto lungometraggio “Il dominio”, si ammicca pesantemente a una difficile convivenza tra specie che andrà a riscrivere, nel bene o nel male, gli equilibri dell’intero ecosistema. Peccato che, in questo sesto capitolo, i dinosauri sono un contorno, e nessuna delle azioni dei protagonisti è legata al loro futuro o alle azioni di questi nel mondo degli uomini. Persino il fatto che Owen vada alla ricerca della piccola Raptor, non è altro che una “quest secondaria” della missione principale: ritrovare Maise.
Chi si aspettava dunque di vedere gli animali giurassici protagonisti di distruttive camminate tra palazzi, ponendo l’umanità di fronte a difficili scelte etiche, rimarrà enormemente deluso. Ancora una volta, la sceneggiatura di Colin Trevorrow è priva di originalità, riportando il tutto al filantropo pazzo che riunisce i dinosauri in un unico luogo per i suoi discutibili scopi. Come se non bastasse, siamo di fronte a un multimilionario mal scritto e macchiettistico, interpretato da un Campbell Scott costretto a portare sul grande schermo una palese versione caricaturale di Tim Cook.
A nulla serve il ritorno del famigerato trio composto da Sam Neill, Laura Dern e Jeff Goldblum vittime sacrificali di una narrativa scadente, assoldati unicamente per alleviare i dolori degli appassionati di lunga data. Attraverso molte delle loro battute, ci si rende conto che la sceneggiatura di Trevorrow si sbeffeggia da sola, ammettendo in più occasioni di essere consapevolmente inadeguata.
Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate
Non si tratta unicamente del discutibile valore del contenuto, ma anche della maldestra gestione dei tempi e delle modalità di racconto. Allo spegnimento delle luci in sala, segue un banale servizio televisivo che ha l’obiettivo di ricapitolare la situazione post Isla Nublar e spiegare allo spettatore tutto quelle che deve sapere sulla nuova minaccia (ovviamente non mi riferisco ai dinosauri, ma alla multinazionale di turno e al suo scellerato leader). Una trovata facile che dimostra fin da subito la poca cura intellettuale dietro il lungometraggio che avrebbe dovuto salvare la “Trilogia World”.
Lo dimostra anche il fatto che, con l’esclusione del nostalgico momento di ritrovo tra gli storici Ellie Sattler e Alan Grant, il primo atto è a dir poco soporifero, risultando eccessivamente didascalico nell’intavolare la narrazione e incapace di far realmente interessare chi guarda alle sorti della piccola Maise o dei protagonisti di questa nuova fase. Il tutto è dato dall’incapacità di non aver saputo creare delle solide basi nei capitoli precedenti, rendendo il ritorno sullo schermo di Laura Dern e Sam Neill, così come le sequenze con la comparsa di qualche sporadico dinosauro, l’unico motivo per continuare la visione.
Tuttavia, la situazione non migliora in seguito e, come abbiamo già visto, la sceneggiatura svela tutti i suoi cliché e la pigrizia nel non volere davvero dare una svolta al franchise. Tra dinosauri che pesano svariati quintali presi al lazo e portati a spasso come se nulla fosse; tra i nostri eroi che dopo i più disparati incontri, tuffi in acque gelide e schianti mortali restano sempre belli, puliti, asciutti e incolumi, non possiamo di certo aspettarci troppo attenzione ai dettagli. Infatti, anche tutta la parte tecnica è rivedibile nelle scelte sceniche e di costumi, con l’eccezione della computer grafica nel terzo atto che sfodera più di qualche bella sorpresa.
La conclusione della trilogia sequel dell’universo Jurassic è dunque un fallimento su tutta la linea capace, in questo sesto capitolo, di ritrovare le vibes dell’opera originale in una sola scena, dove una credibile Bryce Dallas Howard è costretta a immergersi in uno stagno per aver salva la vita.
Portare una narrazione su scala globale era indubbiamente di difficile realizzazione, ma si poteva e si doveva puntare alla spettacolarizzazione dell’incontro tra i mastodontici dinosauri e l’insuperabile delirio di onnipotenza dell’essere umano, andando così a chiudere con convinzione una trilogia maldestra. Quello che è stato distribuito nelle sale cinematografiche è invece il risultato di una partita che non si è nemmeno scelto di giocare. Non è sufficiente riempirsi la bocca un messaggio ambientalista sacrosanto per rendere accettabile una produzione di questo tipo che, come se non bastasse, sbeffeggia lo spettatore negli ultimi minuti conclusivi mostrandogli finalmente ciò che era stato promesso. Con la loro gigantesca presenza sul grande schermo, i dinosauri hanno la capacità di ridimensionare l’ego dell’essere umano e questo gli ha da sempre permesso di scrivere pagine importanti della Storia del Cinema e della cultura pop contemporanea. Purtroppo, però Jurassic World – Dominion non lascerà nulla, se non il desiderio di essere dimenticato il più presto possibile.
Michele Finardi