Ci è stato detto che, in ogni favola che si rispetti, c’è una principessa destinata a una vita di felicità e amore dopo il superamento di alcune difficoltà. Ci è stato anche detto che, questa principessa avrebbe vissuto una vita da sogno, libera in un castello immenso e incantato, accerchiata da una servitù disposta a esaudire ogni suo più piccolo desiderio con sincero affetto. Eppure, la realtà è ben diversa e Spencer, presentato in concorso alla 78° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, non è una favola come tutte le altre, proprio come non lo è la sua protagonista.
Tra dramma di stampo biografico e thriller psicologico, con il suo più recente lungometraggio Pablo Larraìn si discosta dalla veridicità storica per attaccare ardentemente la repressione della libertà individuale, sia in un contesto storico che sociale, utilizzando, dopo Jacqueline Kennedy, un’altra icona femminile del ‘900: Diana Spencer.
Rompendo le regole del biopic tradizionale, il regista cileno decide di fotografare un momento chiave della tormentata vita di palazzo della Principessa di Galles, seguendola incessantemente e portando lo spettatore a vivere con lei la claustrofobia delle festività natalizie all’interno della disfunzionale famiglia reale britannica. Tra tradizioni antiquate e alienazione dalla realtà, Kristen Stewart è il meraviglioso volto di una donna fragile che, privata della sua essenza, inizierà a reclamare la propria individualità attraverso piccoli atti di ribellione che lei, prima di chiunque altro, sarà chiamata ad ascoltare.
Una favola tratta da una tragedia vera
É il 24 dicembre 1991 e la Principessa di Galles, di nascosto alla guida di una Rolls-Royce, si è persa tra le campagne di quella che un tempo chiamava casa, nel tentativo di raggiungere i famigliari nella tenuta di Sandringham. Arrivata a destinazione ben dopo la Regina, infrangendo così la prima di tante “tradizioni Windsor”, riceve in cambio la totale indifferenza dei presenti. Ciononostante, ogni suo spostamento all’interno del palazzo viene sorvegliato, così come ogni sua parola viene ascoltata e riferita. Oppressa e controllata all’interno del suo stesso matrimonio, nonché perseguitata dalla figura di Camilla Parker-Bowles, amante del marito Carlo, Diana riesce a non sentirsi giudicata unicamente in compagnia dei figli e della costumista Maggie (Sally Hawkins). Lo stretto legame tra le due non passa però inosservato e, nel giro di poche ore, verranno bruscamente separate, isolando ancora di più la principessa triste.
Non chiamatela Lady D
Non c’è spazio per le etichette in questa eccellente pellicola di Pablo Larraìn che, con le dovute libertà, decide di dare voce alla repressa Diana: una donna che vuole essere libera e autenticamente se stessa. “Ci devono essere due te”, le dirà il marito in una delle scene chiave della narrazione, ma è proprio questo suo naturale rifiuto di scindere la sua identità personale da quella pubblica, che contribuì a renderla la Principessa del Popolo. Un volto, una maschera che il regista decide di mostrare solo in parte, attraverso la genuina premura che la servitù, divisa tra la lontana famiglia reale e la vicina principessa, nutre nei confronti di quest’ultima.
Tuttavia, questo desiderio di mostrare un’inedita Diana quale donna alle prese con una personale battaglia psicologica per la libertà, e lontana dall’iconografia popolare, è ampiamente dichiarato fin dal titolo dell’opera che pone l’accento sul cognome da nubile di Diana: Spencer. Non è dunque un caso che la narrazione si svolga nelle strette vicinanze della sua dimora d’infanzia che, come vedremo, non è solo abbandonata ma persino recintata con del filo spinato, per tenere lontani i curiosi. Si tratta di un’immagine evocativa potentissima, metafora del lato più autentico della Principessa e di una vita precedente al matrimonio che deve restare inaccessibile, per chiunque. Una repressione forzata di stampo dittatoriale, mostrata fin dalle sequenze iniziali della pellicola, dove i primi a calpestare i corridoi freddi e desolati della tenuta di Sandringham sono le forze militari dell’esercito britannico.
Nessuno prima d’ora, si era mai curato di spogliare Lady D dall’abito mitologico che le è stato cucito addosso da tabloid, opinione pubblica e dal tragico destino cui andò incontro, reclamando la fragilità di una donna prigioniera di muri astratti. Non commettiamo dunque l’errore di considerare Spencer un derivato della serie Netflix The Crown quando è, in realtà, il suo contrario. Se il film di Larraìn ripudia la monarchia quale retaggio di un passato che va abbandonato, lo show seriale ne celebra l’esistenza senza condannarla mai, facendola diventare intrattenimento – di qualità – per la gente comune, storicamente attratta dall’agiatezza e dalle dinamiche delle classi altolocate. Se il primo è una critica aspra e violenta, il secondo è un messaggio promozionale di sensibilizzazione attraverso la fiction.
Una Kristen Stewart da Oscar
Indubbiamente, la decisione di Pablo Larraìn di affidare un ruolo così complesso e conosciuto all’ex Bella di Twilight ha fatto discutere i più. Tuttavia, la prima attrice americana ad aver vinto un Premio César, aveva già da tempo dimostrato di sapersi esaltare nell’incontro con un regista sapiente (vedi Sils Maria e Personal Shopper di Assayas o Café Society di Woody Allen) e, con il regista di cileno, nasce un’alchimia rara.
Grazie a questa collaborazione e con la meritatissima nomination quale miglior attrice protagonista agli Oscar 2022 (premio vinto poi da Jessica Chastain per Gli occhi di Tammy Faye), la giovane attrice sembra essersi finalmente presa la sua rivincita sul grande pubblico che, come la critica, ha in larga parte apprezzato il suo One-Woman-Show. Senza sbavature, Kristen Stewart è sempre presente a schermo, seguita da una camera che indugia sulla repressione delle emozioni tempestose che la protagonista prova. Ma se non sarà la voce di Diana a parlare, sarà la colonna sonora di Jonny Greenwood a farlo per lei. Le sue sono note furiose, capaci di esprime quello che la principessa non può nemmeno sussurrare perché, in quel castello infestato, tutti ascoltano tutto.
Scomposta e irrequieta, Diana è piegata nel corpo e nello spirito e l’attrice si fonde con il personaggio che è chiamata a interpretare, impreziosendo la sua performance con piccoli movimenti che autenticamente richiamano l’inadeguatezza. Perché lei è un agnello (sacrificale) in una corte di lupi. Fragile ma non per questo disposta a farsi spezzare dalle ingiustizie di un’istituzione figlia di un tempo che non c’è più. Alle piccole ribellioni del corpo, dove spiccano i disturbi alimentari, subentra la disobbedienza delle tradizioni e della scelta del vestiario, dove la Stewart segue benissimo l’evoluzione del suo personaggio fino alla liberatoria ripresa di sé attraverso una corsa già iconica. Un momento cinematografico che va ad affiancarsi a quelli visti in Licorice Pizza e La persona peggiore del mondo, sancendo il 2022 come l’annata delle corse verso la presa di coscienza dell’identità individuale.
Il tempo della prigionia di Pablo Larraìn
La poetica del regista cileno ruota fin dall’esordio intorno al tema della repressione della libertà in ogni sua forma. Che sia storica, attraverso personaggi realmente esistiti (Pablo Neruda, Jacqueline Kennedy e Diana Spencer) o attraverso l’ambientazione dittatoriale che fa da sfondo alla narrazione, che sia sociale e d’espressione o persino artistica e sentimentale (Ema), Larraìn utilizza il tempo ben più che come strumento narrativo.
Nel suo ultimo lavoro, la protagonista allude a un tempo indefinito all’interno della famiglia reale dove “passato, presente e futuro sono la stessa cosa“. Attraverso questa battuta, la sceneggiatura evoca gli spettri dei crimini del passato che vengono – con le dovute differenze – messi ancora in atto secoli dopo, mettendo in dubbio la stessa ragion d’esistere di Casa Windsor. Risponde inoltre a una lunga storia di tradizioni e dinastie, con un’istantanea di sole 72 ore in cui la protagonista, prossima a un esaurimento nervoso, si ribella al suo oppressore. Non è importante il “prima”, che possiamo solo immaginare e che, come il “dopo”, ci sono stati raccontati più e più volte. Quello che conta è che, in soli 3 giorni è possibile attuare una rivoluzione capace di portare alla liberazione, per poter finalmente essere sé stessi.
Per questo motivo, Spencer è un lungometraggio complementare a Jackie del 2016, quale trattato degli effetti psicologici ed emotivi di una prigionia identitaria. Se Jacqueline Kennedy viene isolata all’indomani dell’assassinio del marito, e privata del suo lutto, considerata prima per la sua carica pubblica e poi come donna, allo stesso modo Diana Spencer viene messa in secondo piano di fronte alla politica, agli interessi nazionali e di una famiglia acquisita. Il lutto qui è per se stessa e con ancora più forza, rispetto alla pellicola sopracitata, la protagonista viene espressamente denominata, dalla sua Regina, valuta: oggetto di scambio prima, essere umano poi.
In conclusione, Spencer è favola tratta da una tragedia vera, dove un principessa è rinchiusa in un castello infestato, tra spettri del passato e del presente. Con un collare di perle al collo, privata di ogni potere decisionale, il tormento è destinato a diventare disobbedienza per la riconquista della libertà negata. Pablo Larraìn si conferma uno dei più grandi registi contemporanei, ancora una volta sottovalutato nella stagione dei Premi, che trova in Kristen Stewart il volto perfetto per la sua principessa sofferente.
Michele Finardi
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