L’identità è una cosa che non riguarda solo le persone transessuali.
Arriva sulla piattaforma Sky il documentario C’è un soffio di vita soltanto, diretto dai registi Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, narrante la storia di Lucy, la donna transessuale più anziana d’Italia.
L’intervista
Abbiamo incontrato i due registi per saperne di più sul documentario, che è stato presentato fuori concorso alla 39° edizione del Torino Film Festival.
1Cominciamo con il parlare agli sceneggiatori, registi e colleghi Matteo e Daniele: come nasce la vostra collaborazione?
Noi ci conosciamo da quando abbiamo 5 anni. Siamo stati insieme per tutto il nostro percorso scolastico, dalle elementari all’università compresa, spesso anche come compagni di banco. Abbiamo iniziato da musicisti, poi ci siamo laureati in una tesi in Sotria e Critica del Cinema, cambiando un po’ il nostro orientamento di studi. Sempre insieme, abbiamo scritto di cinema anche su alcune testate. Poi, quasi per gioco, nel 2007 abbiamo girato il nostro primo corto Chrysalis: corto che ha concorso in quasi 40 festival in tutto il mondo. Da lì, sempre in maniera indipendente, abbiamo continuato e sono nati Et in terra pax, nel 2011, e Il contagio, film più grande e di sistema, poiché era coinvolta la Rai, ma soprattutto per i costi e per gli attori molto conosciuti – come Vinicio Marchioni, Vincenzo Salemme ed Anna Foglietta. Con C’è un soffio di vita soltanto torniamo all’indipendente, con l’aspirazione però di raccontare una storia che possa essere apprezzata da tutti quanti.
2Cortometraggi prima, 3 film ed ora un documentario: perché la scelta di questo particolare genere di narrazione, abbastanza diverso dagli altri?
In realtà, è stato più un caso. Abbiamo fatto corti e due pellicole di finzione (Et in terra pax e Il contagio); poi nel 2019 abbiamo fondato la nostra casa di produzione Blue mirror. Essendo piccola, abbiamo deciso di iniziare con qualcosa che potevamo gestire meglio, sia economicamente che da un punto di vista organizzativo. Ci è capitato di conoscere Lucy e abbiamo quindi deciso di non aspettare risposte di network o canali ufficiali e muoverci da soli.
3Arriviamo a lei, la vera protagonista: Lucy Salani. Raccontateci di lei, ciò che il documentario non farà ovvio: aneddoti, curiosità e, soprattutto, come vi siete conosciuti.
Daniele ha scoperto, quasi per caso, un suo video su un social network: c’era un’intervista di 10 anni fa, in cui questa donna transessuale parlava della sua deportazione nel campo di concentramento di Dachau. Abbiamo fatto una serie di giri improbabili per contattarla e ci siamo riusciti, nella periferia di Bologna. Siamo andati da lei e l’abbiamo conosciuta. Più parlavamo con lei e più abbiamo capito che non sarebbe uscito un documentario classico: c’era molto di più. Dovevamo creare un affresco diverso, riunire le tessere di un puzzle degli eventi della vita improbabile di questa persona straordinaria. Una persona transessuale, deportata in un campo di concentramento, che ha avuto una “figlia adottiva”, non legale ovviamente. Era un’orfana che, durante la sua permanenza a Torino, dagli anni ’50 ai ’70, ospitava in casa sua, chiamandola anche mamma: figlia che purtroppo ora non c’è più.
Gli aneddoti? Ne avremo tanti, come il nostro viaggio in macchina da Bologna a Dachau. Oppure le serate dove si continuava a parlare, anche a telecamere spente, con i suoi racconti e le sue storie: storie di una persona che riesce ad avere una simpatia ed una cinica ironia, nonostante abbia vissuto esperienze pesanti nella sua vita -un po’ per via della sua identità, un po’ per via del campo di concentramento. Una persona veramente unica!
4Veniamo al documentario: possiamo definirlo “un viaggio sulla trasformazione”? Personale, del nostro Paese…
Sì. Sicuramente è una giusta interpretazione, ma è soprattutto la storia del ‘900 vista da un’outsider, che ci racconta la guerra, l’identità di genere… Non tanto da un punto di vista politico dei movimenti LGBT, quanto dell’idea politica in sé dell’affermazione della propria identità: ecco questo è sicuramente il vero messaggio del film. Certo: la trasformazione c’entra! Perché la nostra è una comunità che, appunto, si trasforma, ma su alcune cose c’è ancora tanto da fare.
5Altro grande argomento è la discriminazione…
La discriminazione è una cosa che certamente Lucy ha vissuto in prima persona. Discriminazione continua, a partire dalla sua famiglia. Lei è nata a Fossano, in provincia di Cuneo, nel 1924 ed intorno ai 14 anni si è spostata a Bologna, sempre con la famiglia. La discriminazione c’è stata sempre, da quando era un bambino: dai genitori, ma anche gli amichetti. A Bologna una compagnia le aveva dato un soffio di serenità, ma poi è arrivata la vera discriminazione da parte dei fascisti: loro facevano marchette a Bologna e i fascisti arrivavano non solo a perseguitarli, ma anche alle percosse. Poi è arrivata l’intolleranza più grande, l’orrore assoluto, con il campo di concentramento.
Questa discriminazione è qualcosa che ha incontrato anche dopo nella vita, poiché ha avuto difficoltà nel lavoro, malgrado a Torino, per una quindicina d’anni, avesse fatto la tappezziera. Poi è dovuta ritornare a Bologna, ricominciando a fare le marchette: quindi anche il lavoro che si fa è la conseguenza della discriminazione. Noi pensiamo che i tempi siano cambiati, ma, come afferma la stessa Lucy, non così tanto. Quello, infatti, che lei auspica è un cambiamento profondo. Dice: “siamo accettati, siamo tollerati; ma la diversità è qualcosa che arricchisce, non qualcosa da tollerare”.
6Avete girato anche durante la pandemia: quanto tempo avete impiegato per questa produzione?
Noi abbiamo conosciuto Lucy nel 2019, iniziando a girare tra fine ottobre/primi di novembre di quell’anno. Seguitanndo poi nei primi mesi del 2020, fino a pochi giorni dell’inizio della pandemia, che ci ha costretto ad interrompere. Finito il lockdown, abbiamo lentamente ricominciato e a settembre del 2020 siamo andati a Bologna, fermandoci una decina di giorni, per poi portare, in macchina, Lucy a Dachau: non volevamo rischiare troppo con aereo ed altri mezzi, perché volevamo proteggerla. È anche un film che racconta le fasi della pandemia: si inizia senza barriere, poi si parla anche di un virus ed improvvisamente cominciamo a vedere persone con le mascherine. È stato quindi anche un viaggio all’interno del nostro mondo, che stava cambiando. Noi però siamo andati dritti per la nostra strada, riuscendo a finire il film.
7Il cambio di sesso è già stato affrontato in una delle vostre pellicola (Rito di primavera): argomento molto attuale e ancora molto discusso. Cosa volete raccontare voi?
Come sai di questo progetto? Perché noi abbiamo scritto solo la sceneggiatura e il film non è mai stato fatto. Beh, diciamo che ha sempre incuriosito questo argomento, poiché l’identità è una cosa che non riguarda solo le persone transessuali. Ci incuriosisce nella loro vita perché c’è una lotta, uno sforzo per essere considerati ciò che l’identità suggerisce. Noi però riteniamo che il tema dell’identità, come viene preso dalla nostra comunità, è un argomento molto interessante ed attuale, perché è qualcosa che ci riguarda: ogni lotta che serve ad esprimere la libertà dell’identità, è una lotta che riguarda tutti. La storia di Lucy quindi, di un’identità che resiste, diventa un modello praticamente universale.
8Il documentario è stato presentato fuori concorso per il Torino Film Festival 2021. Avete già altre candidature per cui dovremo fare il tifo?
Ci saranno sicuramente delle novità, oltre alle tante uscite in sala, che aumentano giorno dopo giorno e che riprenderanno, in alcune città italiane, dal 27 gennaio. Parliamo di Roma, Bologna, Pisa, Firenze ed altre. Per quanto riguarda i festival, ci sono delle cose che ancora non possiamo svelare, per segreto professionale, ma ci faremo sentire…anche all’estero, probabilmente.
Francesco Fario