Titolo originale: Europa ’51
Regia: Roberto Rossellini
Soggetto e sceneggiatura: Roberto Rossellini, Massimo Mida, Antonello Trombadori, Federico Fellini, Tullio Pinelli, Sandro De Feo, Ivo Perilli, Mario Pannunzio, Brunello Rondi. Non accreditati Jean-Paul Le Chanois, Diego Fabbri, Antonio Pietrangeli
Cast principale:
Nazione: Italia
Anno: 1952
«Ciò che conta è che ogni sequenza sia una sorta di meditazione, di canto cinematografico, per il tramite della messa in scena […]. Non si tratta di dimostrare ma di mostrare».
Così André Bazin a proposito di Europa ’51, il film più sovversivo dell’Italia del dopoguerra, opera di un Rossellini post-ideologico, già fuori dal neorealismo. La pellicola, fischiata al Festival di Venezia del 1952, è il primo atto di uscita dalla ripetitività dei modelli resistenziali, che chiedevano ancora ottimismo, narrazioni apologetiche, unità celebrativa sul fronte antifascista. Niente di più lontano dal corso ‘intimista’ aperto da Rossellini, che riversa in questo lavoro una lenta – e solida – decostruzione del proprio cinema, un ripensamento dei dogmatismi e dell’equazione impegno = realismo. Eppure c’è ancora immersione, il tentativo di celarsi dietro la macchina da presa mentre si seguono i personaggi, si scavano i volti. Ma non è che un acclimatamento, un graduale trapasso verso una presenza viva, avvertita. Rossellini si sente, tutta Europa ’51 reca i segni della suo mano sul fronte registico e scrittorio, come a prefigurare stilemi che troveremo altrove, sino alla nausea (si pensi alla Nouvelle Vague, all’incomunicabilità di Michelangelo Antonioni o alle protagoniste di Robert Bresson).
Il “disadattamento” di Rossellini
Questo cammino anticipatorio procede in effetti da un «disadattamento», da quello che Vittorio Giacci indica come scarto dalle pratiche asservite, dalla via «nazionale popolare voluta da “serpenti di ferro” del marxismo dogmatico». Rossellini tradisce i segni codificati dalla retorica neorealista e soprattutto realizza un film che oltrepassa la nazione per raccontare – non senza fatica – i drammi sociali del Vecchio Continente, lacerato dalla guerra e dal nuovo corso di arrivismo. Lo fa in maniera impopolare, ergendo a protagonista una donna altoborghese che, dopo un dolore straziante, si avventura nel sottoproletariato delle periferie per darsi totalmente all’altro, spogliandosi francescanamente del superfluo, scevra da ansie ideologiche o condizionamenti politici.
Il soggetto, per ammissione dello stesso regista, deriva da una duplice suggestione: da un lato lo stupore di Aldo Fabrizi durante le riprese di Francesco, giullare di Dio (1950) – «ma è un pazzo!» – ; dall’altro un fatto di cronaca accaduto a Roma durante la guerra, quando un negoziante di Piazza Venezia denunciò la moglie che commerciava al mercato nero. Esaminato da uno psichiatra, l’uomo fu ritenuto non idoneo alla vita comune, perché – in tempi straordinari – la sua condotta era “viziata” da un problema morale.
Religione e rivoluzione
Ecco il carattere rivoluzionario dell’opera: il coraggio di assumere il dramma di un singolo come nerbo dell’argomentazione, che rilancia nel sociale quello che sembra un disagio interiore. La vicenda di Irene (Ingrid Bergman), progressivamente liberata nell’anima, si conclude con l’internamento che è insieme condanna e catarsi, atto d’accusa contro «il potere, il dogma, l’istituzione» e suprema elevazione dello spirito. La santità laica della protagonista – in cui si assommano le figure di Maddalena, Maria e Gesù – è in questo senso emblema di un sentimento antico, disvelamento del filisteismo borghese e richiamo allegorico al capro espiatorio. Il finale “aperto”, con il primo piano di Ingrid Bergman dietro le sbarre e gli amici borgatari che la appellano come «santa» è, a tutti gli effetti, momento di Rinascita e Sacrificio estremo. Definitivamente sola, Irene prende su di sé le responsabilità morali e sociali che il suo agire ha scatenato.
Non c’è posto per la sua tensione rivoluzionaria, per il carico di bellezza e amore che – per citare Elsa Morante – ha «una che di indifeso e di colpevole». Così per Rossellini, che patisce il tonfo di Europa ’51 perché per la prima volta affronta l’ignoto, indispone e scuote per riflettere le false coscienze, le ipocrisie del modello dominante. È il nuovo corso della sua opera, lo scarto definitivo che si incunea nei primi piani sfumati, nel lavoro di luci e ombre che scolpisce il volto di Irene. Ancora una volta, il suo disadattamento farà scuola: Pier Paolo Pasolini e il sottoproletariato, la New Hollywood con lo sguardo sul femminile – tutto passa da qui, da una tensione stilistico-ideologica spesso assente dalle opere politiche
Tre motivi per vedere il film
- La classe e l’intensità di Ingrid Bergman
- La fotografia in bn di Aldo Tonti
- La scena del dialogo tra il prete ed Irene
Quando vedere il film
Dopo aver visto i capolavori del neorealismo e prima di affrontare la stagione documentaristica
Ginevra Amadio
Bibliografia
V. Giacci, Europa ’51: il miracolo laico della anticipazione poetica/politica, in E. Bruno (a cura di), Roberto Rossellini. Il cinema, la televisione, la storia, la critica, Sanremo, Atti del Convegno del 16-23 settembre 1978, 1980.
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Grazie per questo prezioso articolo di approfondimento che effettivamente consente di comprendere e apprezzare ancor meglio questo film e spinge a rivederlo più volte.