Lady Gaga è una delle voci più talentuose del nostro Secolo. Ancora ricordo, quando un decennio fa, camminavo indifferente sul tapis roulant della palestra sotto casa ascoltando il ritornello di “Poker Face” e pensando: ha una voce troppo simile a Christina Aguilera. Chi è?
Guardando il video nella tv di fronte a me pensai di trovarmi davanti l’ennesima star delle disco-hit. Commerciale, patinata, omologata.
Ma le cose sarebbero andate molto diversamente per questa ragazza alta un metro e cinquantasette centimetri.
Lady Gaga, al secolo Stefani Joanne Angelina Germanotta, è molto lontana da Xtina e da tutte le altre pop star. Scrive i suoi pezzi, li suona, sfoggia look improbabili e ha origini italiane, caratteristica di cui si vanta fieramente nel docufilm su Netflix: Five foot two (il cui titolo è un omaggio specifico alla sua altezza).
Se ne vanta, precisamente, mentre dice che lei dice le cose in faccia, non come Madonna, ad esempio (e questo è un dei momenti più alti della pellicola, in pratica).
Cosa dire di questi docufilm sull’artista? Gli americani sembrano dei giganti sul red carpet – vestiti a festa come i cristiani quando vanno a messa la domenica – ma quando vengono inquadrati dentro casa sono l’iperbole del provincialismo.
Devono pregare, devono stare vicino a nonna, sono grati anche per il meteorismo del loro cane. Sono sempre gentili quando dicono cosa pensano, parlano sempre aprendo il loro cuore candidamente e pensano che il dialogo possa risolvere tutto.
Insomma, o sono molto finti o davvero molto noiosi.
Chris Moukarbel, il regista di Five foot two, segue Lady Gaga per un anno, ma cosa rivela sull’artista?
L’unica nota veramente interessante del film è l’apertura di Gaga in merito ai suoi disagi fisici: la fibromalgia che la perseguita è sicuramente qualcosa di cui non tutti sono al corrente.
Lady Gaga viene infatti colpita da dolori atroci, quindi ha un team al suo fianco pronto ad accudirla per mandarla in scena.
Il docufilm non toglie la maschera, quindi, ma abbassa il tiro sul mito (forse).
Per quanto mi riguarda, oltre ad avere un forte potere soporifero, questi docufilm sono ottimi per ridimensionare la figura dell’idolo. Lady Gaga ha una voce straordinaria, è un’artista a tutto tondo, ma è umana. Molte persone fanno fatica a distinguere l’umano dall’icona e quindi deduco che queste pellicole non siano volte tanto a svelare il non svelato, quanto a rivelare la caducità di creature che vengono idolatrate più per una necessità personale che per un motivo sensato.
Probabilmente se la gente non fosse attaccata in maniera così morbosa all’immagine della diva, forse le case discografiche la smetterebbero di trattare le donne come un prodotto da vendere: più magro, più sexy, più finto.
Lady Gaga ha evidenziato questa criticità affermando di aver aggiunto del sangue ogni volta che le chiedevano di essere più sexy: del resto come dimenticare i suoi video e i suoi look?
La tendenza all’horror le è valsa anche la partecipazione come attrice nella serie tv American Horror Story (stagione numero 5, “Hotel” ), una carriera poi conclamata dal bel film/reboot diretto e con Bradley Cooper, “A star is born”, dove l’omologazione delle star femminili è denunciata senza troppi giri di parole.
Vedendo questo docufilm, viene da chiedersi quanto il regista abbia voluto raccontare davvero qualcosa e quanto invece abbia voluto accontentare i Little Monsters di Lady Gaga, ovvero i suoi innumerevoli fan.
Quasi quasi mi è piaciuto di più quello di Chiara Ferragni.
Alessia Pizzi