Al cinema dal 20 settembre, “Una storia senza nome”, commedia confusamente noir di Roberto Andò, presentata fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia 2018.
“Una storia senza nome”, diretto da Roberto Andò racconta la storia di Valeria (Micaela Ramazzotti), segretaria di un produttore cinematografico (Antonio Catania) alla prese con il plot di un film e una serie di misteri. Lei è la ghost writer di un celebre sceneggiatore, interpretato da Alessandro Gassman. Un giorno viene contattata da un poliziotto in pensione (Renato Carpentieri) che le propone una trama per un film.
Il produttore legge il soggetto e ne rimane entusiasta. Purtroppo, però, non sarà un film facile. Racconta del più famoso furto d’arte degli ultimi 50 anni in Italia: quello del dipinto dellla Natività di Caravaggio, misteriosamente sottratto dall’Oratorio di San Lorenzo a Palermo, in una notte d’ottobre del 1969. Le sorti del dipinto sono altrettanto misteriose. Negli anni diversi ex mafiosi, collaboratori di giustizia, hanno raccontato diverse versioni della fine della Natività. Quella che sembra certo è il coinvolgimento della mafia.
A questo punto in “Una storia senza nome” entrano in scena, quindi, anche la criminalità organizzata, i servizi segreti e la politica. E la protagonista Valeria si troverà immersa in un meccanismo complicato e rocambolesco.
Il risultato è un film che non si riesce a classificare, come dichiara di volere il regista Roberto Andò. Ma non sappiamo se questo sia un bene.
Infatti, la difficoltà ad inquadrarlo in un genere è dovuta alla grande confusione che si respira guardandolo.
È un film con dei momenti divertenti, ma non è una semplice commedia. Vuole svelare i retroscena dell’industria del cinema, ma non riesce a denunciarne i difetti e le connivenze né con forza polemica, né con ironia.
Per non parlare poi della mafia, tema inevitabilmente difficile da trattare. Ma in “Una storia senza nome”, manca uno stile definito per narrare i fatti e il fenomeno mafioso. Andò la descrive mescolando i registri: ironia, grottesco, dramma, ferocia. Ma non li amalgama perfettamente.
La nostra impressione è che sia, più che un film di difficile definizione, un film non definito.
In “Una storia senza nome” nessuno è quello che sembra o dice di essere. I personaggi sono tutti un po’ misteriosi e hanno qualcosa da nascondere. La protagonista sembra dovere esplorare dimensioni sconosciute di sé, tanto da citare Amleto quando dice “sappiamo ciò che siamo, ma non ciò che potremmo essere”.
Ma il gioco dell’ambiguità, vera o presunta, è difficile e in questo film non riesce molto bene. Nonostante ciò, gli ottimi interpreti hanno fatto un buon lavoro.
Micaela Ramazzotti e Renato Carpentieri ricreano in questo film di Andò la complicità che li univa ne “La tenerezza” di Amelio. Se in quest’ultimo era l’uomo anziano a riscoprire attrverso una giovane madre e la sua famiglia la tenerezza, in “Una storia senza nome” è Valeria ad acquisire una maggiore fiducia e consapevolezza di sé grazie al misterioso poliziotto in pensione. I due condividono il culto per la segretezza in un rapporto più scanzonato.
Ad onor del vero, la maestria di Carpentieri supera di gran lunga le capacità di Ramazzotti, che purtroppo dà l’impressione di recitare una parte troppo simile a quello interpretato in altri suoi film.
Abbiamo molto apprezzato anche gli interpreti dei ruoli “minori”. Tra gli interpreti più convincenti spicca, senza dubbio, l’ottimo Gaetano Bruno, personaggio trait d’union tra produzione del film, boss mafiosi, politici.
Fa sempre una bellissima figura Laura Morante, qui madre ingombrante della protagonista, nonché esempio e causa di molte delle sue scelte.
Alessandro Gassman è sempre a suo agio nel ruolo dell’uomo un po’ cialtrone e guascone, seduttivo e scaltrissimo. Essendo un film sul cinema, non può che essere pieno di citazioni. Gassman, mentre lo picchiano, risponde alle domande con frasi famose dei film.
Insomma, se – come si dice nel film – “il cinema è al 50% seduzione”, “Una storia senza nome” non ha raggiunto del tutto lo scopo. Pur essendo godibile, non ci ha sedotti.
Tuttavia, il cinema è anche sogno. E se c’è un motivo per vedere “Una storia senza nome” è sognare per un paio d’ore che “La Natività” di Caravaggio sia ancora integra, nascosta da qualche parte; che non se la siano mangiata i maiali, che non sia stata fatta a brandelli da un mercante d’arte svizzero, che non si sia sgretolata appena svelata agli occhi di un boss mafioso.
Al cinema ci si può illudere che il capolavoro possa un giorno tornare al suo posto, all’Oratorio di San Lorenzo a Palermo. Possibilmente, stavolta, custodito sotto sguardi più attenti.
Stefania Fiducia