C’è un enorme, gigantesco problema di fondo in Hammamet. Che poi, purtroppo, è il problema di ogni tentativo nel cinema italiano di fare film politici, su figure politiche vere e spessissimo scomode.
Il problema è che per fare Hammamet si è partiti dall’idea di stabilire cosa il film non fosse, non cosa il film fosse.
Che Gianni Amelio abbia deciso, nel realizzare un film su Bettino Craxi, di non fare un film politico, per quanto paradossale, può andare benissimo. Che abbia deciso di non fare nemmeno un film ideologico, può andare anche meglio. Poi però si decide di non fare nemmeno un film sull’uomo, perché perdere la dimensione politica sprecherebbe il concetto stesso di biopic. Ma si decide di non menzionare il nome Craxi, nemmeno Bettino. Poi bisogna essere realisti, intimi, ma evitare troppo realismo e troppa intimità, perché i nomi non vanno fatti e, quando ci sono, vanno inventati.
Non si capisce bene, per usare un eufemismo, cosa sia Hammamet, cosa voglia diventare e soprattutto cosa voglia comunicare. Nell’essere convinto di cosa non essere, perde per strada sempre più coerenza, interesse, forza e fascino. Come se si vergognasse di essere un film su Craxi (tanto da aver scelto di mostrare e raccontare solo gli ultimi anni dell’ex premier durante il suo “esilio” in Tunisia, quando Craxi stesso non era più il vero e noto Craxi insomma, e già tale scelta fa capire molte cose) ma al tempo stesso non riesca, o forse non vuole nemmeno provarci, a trasformare il suo protagonista in un simbolo, la ricostruzione storica in metafora, come ha fatto Paolo Sorrentino nei suoi biopic politici.
E così Hammamet si incarta su sé stesso, diventa farraginoso laddove potrebbe nutrirsi degli spunti affascinanti, storici e politici, che talvolta offre. E, soprattutto, circonda Pierfrancesco Favino di interpreti quasi mai all’altezza (soprattutto i più giovani). Il film muore nello scarto evidentemente e drammatico delle scene di recitazione a due, quando un Favino trasformato e impegnatissimo, capace di una performance sia esteriore sia interiore che ricorda quella di Christian Bale in Vice, deve dialogare con attori che non finalizzano mai gli assist ricevuti.
Eppure, c’è un eppure. Perché quando il film muore, riesce stranamente a rinascere.
Nella sua assenza di forma e struttura, nella vacuità delle sue intenzioni, nella sua narrazione rapsodica, nei simbolismi che sceglie, Hammamet riesce a essere un film a tratti ipnotico. Proprio perché strano, proprio perché inaspettato nel risultato finale, proprio perché diverso da ogni film politico italiano precedente, proprio perché realizzato molto col cuore e pochissimo con la testa, Hammamet riesce a diventare interessante e affascinante pur rifiutandosi di esserlo. Senza attaccare e senza difendere a priori, come un film dovrebbe fare.
Costruisce Craxi decostruendo tutto il resto, dalle persone vicine alla dimensione in cui si muove. Immagina la sua villa come una fortezza sotto assedio, nella quale persino i bambini sono generali e gli uomini con le armi, privi di identità, devono difendere il simulacro di un passato dichiaratamente ottuso e egoista. Non è solo ritratta l’agonia finale di uomo, ma anche l’agonia di un pensiero, di un modo di fare e vedere la politica che si arrocca, mentalmente e geograficamente, in un fortino debole, ridicolo e persino dimenticato. E così il Craxi più umano si vede proprio quando latita di umanità, quando è scostante e antipatico, bugiardo e arrogante, intelligente e decaduto.
Il Craxi di Gianni Amelio è un personaggio affranto da sensi di colpa per colpe che non capisce e non ammette. Paradosso dei paradossi. Nel quale, però, troviamo il senso di Hammamet: ritrarre la fine di un politico la cui maggiore, e unica, eredità politica è quella di non aver lasciato eredità politica.
Retorico, intimo, patetico, onirico: Hammamet infila tutto perché non sa cosa essere e come esserlo. Ma quando ha qualcosa da dire, capiamo che poteva essere un grande film.
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Emanuele D’Aniello