Ora che abbiamo visto l’opera Loro nella sua interezza, qualche idea in più per commentare l’abbiamo. O meglio, adesso sappiamo cosa è, cosa voleva essere, ma non quel che sarà.
Perché Paolo Sorrentino lo ha ribadito più volte: il suo è un film apolitico (verissimo) che vuol svelare l’individualità della persona Silvio Berlusconi, cosa c’è dietro il personaggio pubblico mentre gli altri, loro appunto, spingono a conservare quella faccia per puro tornaconto. Insomma, è l’ennesimo racconto sulla solitudine umana presente come colonna portante in tutti i film del regista napoletano, e anzi, qui ci sono davvero tutti i suoi mantra cinematografici.
Però, d’altro canto, Sorrentino non è ingenuo, e sapeva benissimo a cosa andava incontro. Sapeva benissimo, non posso pensare altrimenti, che scegliendo Silvio Berlusconi come soggetto non si sceglie una persona casuale, e qualunque intenzione avesse inizialmente sarebbe diventata obbligatoriamente altro. Se non vuoi parlare di politica, allora non parli di Silvio Berlusconi in partenza, punto.
In poche parole, Loro è il ritratto degli ultimi 25 anni italiani incarnati dalla sua figura più caratteristica, nota, controversa. A prescindere da cosa Sorrentino volesse fare, ovviamente.
La prima parte ha costruito con acidità, follia e graffiante ironia il percorso inevitabilmente decadente del suo protagonista. Percorso che, di riflesso, si estende a tutti coloro che gli gravitano intorno, o che vorrebbero anche solo ronzargli. Loro, appunto. Questa seconda parte ha gettato la maschera, dimostrando che dietro la superficie c’è il vuoto, l’ineluttabile confronto col tempo che passa e con la costante insoddisfazione umana.
“Tutto non è abbastanza” non è soltanto una tagline, ma la concretizzazione materiale dell’impossibilità di essere felici. Berlusconi ha tutto ciò che vuole, ma non si capacita di come possa essere nuovamente all’opposizione, e pure quando torna al potere perde l’unica bussola che gli dava una parvenza di normalità, ovvero la moglie. Sergio e Tamara hanno finalmente avuto accesso a Lui, alle stanze dei bottoni, ma tra di loro si è creato un muro invisibile e invalicabile. Soprattutto, non hanno migliorato la loro vita come pensavano.
Rimane allora la presa di coscienza più amara: si nasce e si muore soli.
Sorrentino ce lo dice in ogni film, e quando accade anche a uno come Silvio Berlusconi il concetto è ribadito più forte. Addirittura, il concetto ora si allarga: ritroviamo anche la paura di invecchiare (come in Youth), e la decadenza sociale e morale di un intero paese (come in La Grande Bellezza).
Nel gioco dei rimandi, Loro è una storia agli antipodi di Il Divo. Lì avevamo una figura grigia, mediocre, silenziosa che si muoveva negli anni più rocamboleschi della storia italiana, che Sorrentino paradossalmente filtrava in un’opera rock e definiva “spericolato”. Qui ora abbiamo una figura energica, rumorosa, istrionica fino al parossismo, ridicola nel suo ergersi a iconografia forzata, pietra angolare della simbiosi tra sesso e politica, che Sorrentino invece ritrae nel suo piccolo mondo antico, nel suo esilio in Sardegna, solo tra soli, infantile e invecchiato.
Il Re è nudo. Ma nudi sono anche tutti i cortigiani. Lo è l’Italia stessa, in conclusione.
Berlusconi visto da Sorrentino non è il Diavolo, e questo deluderà molti. I difetti ci sono tutti. Le nefandezze fatte in politiche sono tutte dette e persino raffigurate (la compravendita dei senatori), ma Sorrentino non si sofferma ad esplorarle. Addirittura il malcostume delle “olgettine”, che in Loro 1 era l’architrave onnipresente, in Loro 2 passa in secondo piano tematico ed emotivo: non sono l’epitome di una mancanza di moralità, ma l’ennesimo sguardo satirico su qualcosa di profondamente patetico, triste.
Berlusconi, però, è trattato in modo umano, e diventa il simbolo assoluto del nostro paese. Come l’Italia, non si capacita del perché non riesca più a raggiungere la gloria del passato. Come gli italiani, è assuefatto a tutto grazie al riflesso di perfezione che ha costruito su sé stesso. Da qui l’idea geniale di far interpretare anche Ennio Doris a Toni Servillo, come se i vari “yes men” di Berlusconi fossero tutti riflesso della voce del padrone. Megalomania, direbbero quelli bravi. Proprio come l’Italia, oltretutto, decide di non arrendersi mai. Se per lui la voglia di andare avanti è rappresentata dall’energia in una telefonata in cui torna il venditore di inizio carriera (la scena migliore del film), per il nostro paese quella voglia è la determinazione nel ricostruire dalle nostre stesse macerie, come vediamo nel finale.
Dopotutto, ce lo suggeriva anni fa proprio Sorrentino: è tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio. Quel chiacchiericcio sterile, futile, dannoso che in 20 ha costruito Berlusconi, e che noi italiani dobbiamo avere la forza di superare. Perché qualcosa là sotto c’è ancora.
Quello che rimane è un Silvio Berlusconi solo, triste, che non accetta la realtà e forse per questo è ancora più patetico. Non è attaccato direttamente in forma propagandistica come molti credevano, ma indirettamente, nel profondo della sua stessa essenza berlusconiana. Probabilmente è davvero il film che ha capito come mai prima d’ora il Berlusconi uomo.
Quella figura che ha avuto tutto, si sente ancora pieno di energia e voglia di imporre il proprio ascendente (come si evince ancora dai recentissimi e attuali fatti di cronaca politica) ma si trova davanti l’inesorabile tramonto. Una fine che prova a scacciare in tutti i modi. Che sia essa rappresentato da un’epoca, come il matrimonio, oppure da una persona vera, come Mike Bongiorno. Tutto ciò che appassisce è deleterio per Berlusconi, proprio perché gli ricordano che appassisce anche lui.
Ne esce fuori un ritratto umano, sincero, tenero, che non farà felici gli ammiratori e nemmeno i detrattori. In compenso, abbiamo tre ore e mezza di puro cinema. Di un film diviso in due parti sicuramente imperfetto, è innegabile, che talvolta si perde nei suoi stessi compiacimenti, nelle sue stesse stranezze. Proprio per questo allora, nel suo prendere solo rischi, diventa grande cinema.
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Emanuele D’Aniello