Quello di Olivia Wilde non è di certo un ritorno in cabina di regia che potremmo definire “in punta di piedi”. Il suo secondo lungometraggio, presentato Fuori Concorso a Venezia 79 e disponibile dal 22 settembre nelle sale italiane, è stato infatti preceduto – ed è ancora oggi accompagnato – da una vera e propria campagna pubblicitaria basata sul pettegolezzo. Un chiacchiericcio volto a far parlare del film ancor prima della distribuzione e che, a posteriori, risulta essere inevitabilmente ricercato dalla stessa Wilde, che non è stata però in grado di tenerne saldamente le redini. Dalle manipolazioni con false dichiarazioni sull’abbandono del progetto di Shia LaBeouf, alla relazione extra-coniugale sul set con il sostituto Harry Styles, l’intera situazione ha avuto un effetto boomerang che non ha lasciato di certo incolume la cineasta. La presa di posizione di una sfuggente Florence Pugh rende bene l’idea di come il rapporto tra il cast e la Wilde non sia stato, e non è tutt’ora, dei più armoniosi. Un vociferare incessante che non sta facendo altro che screditare la persona dietro l’indiscusso talento registico, etichettandola come una figura ingombrante con la quale non è semplice avere a che fare.
Con il suo brillante film d’esordio Booksmart, in Italia tradotto in maniera criminale come La rivincita delle sfigate, Olivia Wilde aveva dimostrato di possedere del mestiere, dirigendo quello che è uno dei migliori coming of age movie del nuovo millennio. Se a questo indiscutibile gusto estetico aggiungiamo la presenza dell’ex One Direction nelle vesti del co-protagonista, in grado di richiamare in massa il pubblico più giovane, risulta evidente che la creazione del caso mediatico è stata una scelta totalmente ingiustificata e, per certi versi, persino dannosa al film stesso.
E dopo tutto questo assillante rumore di fondo, tra frivoli pettegolezzi e scandali, ora che Don’t Worry Darling è finalmente in sala la domanda da porsi è soltanto una: oltre al gossip c’è di più?
Oggi Victory, domani il mondo
Alice e Jack (Florence Pugh e Harry Styles) fanno parte della piccola comunità utopica di Victory Lane, una cittadina nel bel mezzo del deserto e apparentemente fuori dal tempo, fondata e guidata dal capo di una misteriosa azienda nota come Victory Project. Frank (Chris Pine) è infatti datore di lavoro e al tempo stesso motivatore, di tutti gli uomini residenti in città che, nella routine di giornate che scorrono tutte uguali, ogni mattina escono sulle loro auto sempre splendenti per lavorare a un progetto top secret. Le mogli hanno invece il compito di restare a casa per badare ai figli, all’abitazione e per preparare ogni sera una gustosa cena per i rispettivi coniugi.
Le idilliache giornate di pettegolezzi e shopping di Alice, sempre al seguito dell’amica Bunny (Oliva Wilde), vengono interrotte dalla vicina Margaret (Kiki Layne) che, in evidente stato confusionale, inizia a mettere in dubbio la leadership di Frank. Accompagnata da sempre più frequenti visioni e allucinazioni, Alice raggiunge la sede centrale della Victory Project e la sua vita comincerà ad andare in pezzi.
Alice attraverso lo specchio
Se non fosse per i colori sgargianti, sembrerebbe che la sempre assolata cittadina di Victory Lane sia uscita da uno spot pubblicitario degli anni ’50. Mogli bellissime dall’acconciatura sempre perfetta vestono unicamente abiti e costumi da bagno favolosi. Mariti elegantissimi passano giornate intere fuori casa per guadagnare quanto necessario affinché possano continuare a vivere nel lusso e per poter mantenere le loro donne. Ed è proprio da questo concetto che nasce il titolo dell’opera stessa. “Don’t Worry Darling, a te baderò io” è il messaggio d’amore, e al tempo stesso di repressione che manderà un opaco Harry Styles, non sempre a suo agio nel ruolo, alla sua straordinaria controparte.
La comunità sperimentale ideata da Frank, vero e proprio leader di quella che, minuto dopo minuto, appare essere una vera e propria setta, è infatti una società patriarcale e fallocentrica, indubbiamente retrograda che agli occhi del suo creatore appare però ordinata e modello da esportare. Ispirandosi alla figura dell’accademico Jordan Peterson, ripetutamente attaccato di maschilismo da Olivia Wilde per le sue posizioni spesso in controcorrente con quello che oggi viene definito political correct, il personaggio interpretato da Chris Pine è costantemente a metà tra uomo d’affari e mental coach. Un mondo da sogno per il suo ideatore che verrà però minato dal risveglio di una donna che, proprio come vuole il suo nome, attraverserà metaforicamente quegli onnipresenti specchi capaci di distorcere la realtà, portando alla luce l’incubo che si nasconde dietro Victory Project.
Nonostante la premessa e la contestualizzazione di qualche riga sopra, il personaggio di Frank risulta all’interno della narrativa fortemente bidimensionale, privato persino della possibilità di giustificare i propri intenti. È un destino che purtroppo accomuna tutte le parti in causa maschili, e che mette la protagonista nel difficile compito di tenere tra le mani il destino del film stesso. Una missione complicata ma non impossibile se a doverla portare a termine è la talentuosa Florence Pugh che diviene il vero motore dell’intera opera dimostrando, ancora una volta, la sua innata capacità di adattarsi a ogni contesto. L’attrice britannica risponde con credibilità e convinzione alle ripetute contaminazioni che Don’t worry darling propone, saltando costantemente dal thriller distopico con randomatiche contaminazioni horrorifiche, alla fantascienza, al dramma amoroso. La sua presenza scenica e la sua espressività bucano ripetutamente lo schermo esaltando la mano di Olivia Wilde che, anche con questa seconda opera, si rende protagonista di alcune eccellenti trovate visive, funzionali nel trasmettere delle volte un forte senso di oppressione, delle altre il riflesso di un mondo bigotto al quale non possiamo più permetterci di credere.
Un incredibile senso di déjà vu
Durante le interviste che hanno anticipato l’uscita del film, tra una dichiarazione indiscreta e l’altra, Olivia Wilde ha dichiarato di essersi ispirata a pellicole popolarmente conosciute, quali The Truman Show e Inception per la realizzazione del suo Don’t worry darling. Tuttavia, le contaminazioni concettuali e le ripetute citazioni cinematografiche non si limitano ai soli due film sopracitati, minando indelebilmente l’esperienza filmica che pare viaggiare con il pilota automatico. Privo di particolari guizzi e dall’epilogo facilmente intuibile anche ai meno esperti, come detto precedentemente la visione è sorretta dall’interpretazione della Pugh e dal buon ritmo che la regista riesce imporre alla sua opera. Per il resto, gli inevitabili rimandi alle grandi narrative distopiche, su tutti La fabbrica delle mogli, e perché no anche Matrix, risultano ingombranti e a tratti persino ridonanti.
Purtroppo, le problematiche in fase di sceneggiatura vanno ben oltre questa mancata originalità e la frequente superficiale demarcazione dell’indole dei personaggi maschili. Lo script di Katie Silberman risulta infatti poco coeso ed eccessivamente frettoloso soprattutto nel terzo atto dove, inspiegabilmente, non vengono giustificati nodi cruciali che hanno permesso il risveglio di Alice. Tra incoerenze, omissioni e azioni che lasciano intendere un approfondimento che non avverrà (vedi il gesto finale di Shelley, interpretata da Gemma Chan, che suggerisce come potrebbe esserci in verità lei dietro il Victory Project), il film si chiude proprio quando la narrativa comincia a offrire qualche differente spunto. Si ha la forte impressione che si sia deciso di snellire il minutaggio a discapito però di una fruizione meno frammentaria dell’atto conclusivo.
Al termine della visone, seppure la chiusura stilistica di Olivia Wilde sia azzeccata, resta l’amaro in bocca per aver ammirato un film esteticamente ineccepibile, dall’indiscusso valore tecnico in fatto di scenografie, trucco, montaggio, costumi e fotografia, ma incapace di camminare con le proprie gambe quando parliamo di sostanza. Proprio come la sua protagonista, Don’t worry darling appare come privato della sua stessa identità, se mai abbia voluto possederne una fino in fondo. Infatti, a differenza di Alice che reclama a gran voce il diritto di tenere la propria vita tra le mani, lottando per mandare in frantumi la realtà distorta degli specchi di Victory Lane, la seconda opera di Olivia Wilde decide invece di limitarsi a essere un semplice duplicato di tanti altri film. A volte l’apparenza inganna e il contenuto di quella confezione perfetta si rivela essere povero al confronto. Per quanto resti una visione piacevole, dispiace che sia proprio Don’t worry darling a restare chiuso nella sua bolla di autorialità riflessa, picchiando incessantemente contro il vetro, sbraitando a gran voce e alzando un gran polverone nella speranza di essere salvato da sé stesso.
Michele Finardi