Caro Michele di Monicelli, tratto dal romanzo di Natalia Ginzburg, è un film intimista, attraversato da un senso di smarrimento e gelo. Quello di una generazione “perduta” che non si sa raccontare.
Titolo originale: Caro Michele
Regista: Mario Monicelli
Sceneggiatura: Tonino Guerra, Suso Cecchi D’Amico
Cast principale: Mariangela Melato, Delphine Seyrig, Aurore Clément, Lou Castel, Fabio Carpi, Marcella Michelangeli, Alfonso Gatto, Eriprando Visconti
Nazione: Italia
Anno: 1976
Ogni primo giovedì del mese, da Canova, alle cinque. L’appuntamento di Adriana è uno di quelli che si rispettano per abitudine, in nome di un sentimento passato e sospeso. Transitato non si sa bene quando dal territorio dell’amore a quello del tiepido affetto. È il baluardo di un tempo immobile e immobilizzato.
Raggelato, come il paesaggio nevoso che apre il romanzo di Natalia Ginzburg da cui Mario Monicelli trae un film di rara, poetica, bellezza.
Caro Michele è infatti il racconto di un’incomunicabilità che si è fatta cronica. Il resoconto schietto e lineare di quello che Garboli definisce un «progressivo assideramento» [1] del cuore e del pensiero, in cui i personaggi si «congedano dal ricordo di un tepore lontano» forse mai vissuto e proprio per questo ricreato – ricercato nella memoria. Adriana (Delphine Seyrig) e l’ex marito (Alfonso Gatto) si sono amati e tanto odiati. Borghesi nel senso assunto negli anni Settanta, mantengono una parvenza di rapporto civile incontrandosi a cadenza regolare nello storico bar romano per l’ora del té.
«Una tortura», secondo la sorella di lui – un’«abitudine» da uomo metodico, secondo l’elegante e fragile signora.
La prima scena li rappresenta lì, annoiati, stanchi e sbadati davanti a un tavolino quadrato. È un’istantanea di vita appassita, la fotografia di una perdita che segna la cifra della narrazione e il ritmo lento della trasposizione filmica. Tra romanzo e pellicola c’è comunicazione continua. Una fedeltà che travalica i limiti della semplice aderenza al testo per farsi “saccheggio” e traduzione arricchita, a tratti persino “migliorata”. Monicelli dà corpo e voce a protagonisti volutamente ridotti al silenzio, tratteggiati da Ginzburg nella loro raggelante e asfittica incapacità di comunicazione.
Nel farlo non tradisce il senso dell’opera ma piuttosto si spinge a compierlo, in una dimostrazione piena e totale della capacità delle arti di interagire e integrarsi tra loro.
La scelta di Monicelli di aprire il suo Caro Michele con un’immagine di stasi risponde alla scelta manifesta – e sino all’ultimo rispettata – di restituire quel «crescente e misterioso senso di freddo» di cui parla Garboli. I due ex coniugi sono l’emblema di una famiglia il cui focolare si è ormai raffreddato e progressivamente spento. Una tribù che non sa più riconoscersi, che non vuol più distinguersi dagli altri e contro gli altri. Ciascuno vive un’esistenza sola, egoisticamente separata da muri invisibili e invalicabili. Nel testo della Ginzburg sono le lettere a dimostrarlo, nella pellicola del cineasta romano la voce dei protagonisti che recita le missive.
È una corrispondenza totale, arricchita da una drammaticità mai stucchevole o manierata. Resa possibile da uno sguardo catturato in camera da un gioco di luci e ombre che restituisce il senso di una quotidianità segnata da un tempo più grande, convenzionalmente definito oscuro: il tempo delle rivolte.

Michele, infatti, è un “ragazzo di movimento” come si usava dire all’epoca. Non un terrorista ma un rivoluzionario di sinistra, armato di un mitra «vecchio e rugginoso» dimenticato in una vecchia stufa. È lui il destinatario (e il mittente) di tante lettere, l’assenza muta e indefinibile. Il perno attorno a cui ruota un dialogo ridotto all’osso, tenuto in piedi dall’evanescenza della sua figura.
Michele non si vede mai e in quanto tale assume il volto di tutti i giovani contestatori, assomma in sé i tratti tipici di una generazione che tra incertezza e utopia ha assaltato il cielo per poi schiantarsi a terra.
La madre – Adriana, appunto – lo teme aggregato ai tupamaros. Il padre lo immagina sempre bambino, figlio prediletto già «nato educatissimo», amato oltre ogni ragionevole dubbio fino alla propria morte. Michele che ha tagliato i ponti con il passato, che rifiuta il padre nel momento del funerale, che rinnega il denaro e il materialismo borghese rappresentato dall’eredità del genitore. Michele che forse ha un figlio o forse è omosessuale, che dorme ogni giorno in un luogo diverso, che pratica l’amore libero come Mara Castorelli (Mariangela Melato), ed è nomade e precario nell’anima e nel codice esistenziale.
Solo la sua presenza-assenza riesce a disporre i fili di una narrazione immobile, spaesata come l’orizzonte di tanti osservatori (la Ginzurg e Monicelli tra essi) dinnanzi all’inedito protagonismo di una generazione esaltata dall’utopia e poi ridotta – fatta ridurre – al disincanto.
Così vediamo Adriana indugiare su particolari che restituiscono il senso di un dialogo stentato, e Ada, la moglie dell’amico di Michele Osvaldo (Lou Castel), lanciarsi in invettive piccolo-borghesi contro i giovani «sbandati» che «sotto sotto covano la voglia di farci saltare in aria tutti». L’ombra di Michele, la sua fuga improvvisa, consentono di mettere a fuoco le contraddizioni di un’epoca segnata da un contrasto generazionale ricercato e rigettato dai due attori in gara. Incancrenito nella pratica quotidiana che si intreccia con la storia e fa, di quella Storia, una cronaca perennemente condannata al silenzio mistificato e intrasmissibile.
Monicelli, più della Ginzburg, insiste sulla figura di Mara, sulla sua «balorda» libertà alla ricerca di un luogo dove restare più con il cuore che con il corpo, gestito da lei in opposizione alla società maschilista e patriarcale, che la pone ai margini con un pizzico di condanna conformista che è anche dell’autrice, strenua contestatrice della liberazione sessuale [2].
Grazie alla drammatica leggerezza della Melato, il regista attribuisce tuttavia una caratura più umanamente tragica al personaggio della giovane, campione di un’umanità diversa e nuova, fatta camminare baldanzosa, con carrozzina al seguito, al centro della carreggiata di una strada deserta – a simboleggiare il desiderio di un futuro che è rischio e speranza.

Di Michele invece non restano che ipotesi.
Una morte avvenuta in un corteo, a Bruges, lontano da un passato ricordato – attraverso le sue parole – con «nostalgia e repulsione». Ammazzato dai fascisti, come tanti giovani dell’epoca. Nelle parole della sorella Angelica (Aurore Clément) la sua fine è una cosa banale, incerta, come tutta la sua vita, come tutta la quotidianità:
In verità noi non sappiamo niente e tutto quello che riusciremo a sapere saranno altre ipotesi, che riporremo dentro di noi continuando a interrogarle ma senza leggervi mai nessuna risposta chiara. Ci sono delle cose a cui non posso pensare, e in particolare non posso pensare a quei momenti che Michele ha passato da solo su quella strada. Anche non posso pensare che mentre lui moriva io me ne stavo tranquillamente nella mia casa facendo i gesti di ogni sera, lavando i piatti e le calze di Flora e appendendole con due pinze sul balcone fino a quando non è suonato il telefono.
Ma è nell’immagine ricordata da Adriana che l’assente Michele riprende forma, riassumendo ancora in sé – in quella che per la madre è una memoria felice – i tratti e i sogni reali di quella parte di gioventù.
Ella scrive a Filippo (Eriprando Visconti), antico amore perduto, per chiedergli di inviarle le parole di un vecchio canto della resistenza spagnola che l’ex marito cantava a Michele e che lui stesso, una volta in montagna, aveva intonato al ragazzo. Mentre la voce di Adriana legge la lettera, sullo schermo scorrono le immagini di un Michele bambino, inseguito da Filippo in un gioco di risa, gioia e libertà al suono di El Paso del Ebro. È un’immagine forte nella sua delicata essenza, la rappresentazione migliore – forse persino involontaria – di quegli anni di “piombo”, rivoluzione, rabbia e speranza infinita.
3 motivi per vedere il film:
- La delicatezza del racconto
- L’intreccio tra il tempo della Storia e il tempo del quotidiano
- El Paso del Ebro che risuona fino a far venire i brividi
Quando vedere il film:
Dopo aver letto il romanzo della Ginzburg, per saggiare differenze e affinità.
[1] C. Garboli, Prefazione a N. Ginzburg, Caro Michele, Torino, Einaudi, 1995, p. VI.
[2] Si vedano a tal proposito le posizioni espresse dalla Ginzburg in Mai devi domandarmi, in Opere, II, Milano, Meridiani, Mondadori, 1987.
Ginevra Amadio
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