Melò laico e moderno, Anna di Alberto Lattuada fotografa le contraddizioni dell’Italia anni Cinquanta.
Titolo originale: Anna
Regista: Alberto Lattuada
Sceneggiatura: Giuseppe Berto, Franco Brusati, Ivo Perilli, Dino Risi, Rodolfo Sonego
Cast principale: Silvana Mangano, Raf Vallone, Vittorio Gassman, Gaby Morlay, Jacques Dumesnil
Nazione: Italia
Anno: 1951
Cinema e società
L’abusato accostamento dei due termini solleva un tasso di problematicità che necessita, inevitabilmente, di una distinzione preliminare. Qualunque sia il periodo preso in esame, la trattazione che ne deriva varia a seconda che si punti l’attenzione sul primo dato o sul secondo, distinguendo pertanto il cinema nato e prodotto dai mutamenti sociali, da quell’influenza “climatica” esercitata dalla società stessa sulla settima arte. Nel caso degli anni Cinquanta, tuttavia, il discorso non può prescindere da un’intersezione tra i due piani, giacché ogni ripartizione netta mal si addice allo studio di un’epoca di transizione totale.
L’Italia del dopoguerra è un paese attraversato da contraddizioni imponenti, sospeso tra le rovine da raccogliere e l’avvio di quello che sarà ribattezzato enfaticamente “miracolo economico”.
Le fratture che ne compongono l’identità determinano solchi profondi, il divario tra nord e sud viaggia di pari passo con la forbice – nei decenni successivi insopportabile – tra paese reale e paese legale. Nel mezzo l’analfabetismo, l’abbandono delle campagne, il corpo delle donne come oggetto di possesso e campo d’analisi ancora in nuce. In tale contesto, il cinema si pone come la forma di spettacolo più diffusa, la sola in grado di soddisfare l’anima impegnata del paese e la sua controparte popolare, chiamate a interagire lungo un tracciato dai contorni sfumati in cui neorealismo e melò comunicano a vicenda. È proprio quest’ultimo genere a racchiudere in sé i tratti caratteristici di una società instabile, la sua fame di storie drammatiche e il bisogno di esorcizzare, attraverso le lacrime per gli altri, i propri problemi.
Il melò cinematografico è un collettore di spinte d’agitazione e forme narrative.
La sua natura di «genere fantasma» [1] lo rende perfetto crocevia di espressioni artistiche, un ponte sospeso tra il passato della sceneggiata e del dramma e il futuro dell’incomunicabilità, della decostruzione totale. Comprendere ciò che si agita al suo interno, dietro e attraverso l’espediente delle lacrime, consente la ri-scoperta dei caratteri di un’epoca, esercizio quanto più necessario se compiuto col senno di poi, alla luce delle conquiste dei decenni successivi. Quello melò, come ricorda opportunamente Morreale, è non a caso il cinema in cui “trionfano” – perlomeno a livello di presenza – le figure femminili [2].
Grandi dive, personaggi indimenticabili
Le donne sullo schermo si fanno portatrici del nuovo rapporto tra famiglie e media, innescando al contempo meccanismi di messa in rilievo delle contraddizioni del privato, spazio di un ripiegamento imposto e interiorizzato. Da una fase di partecipazione come quella resistenziale, in cui al «maternage di massa» [3] si univa un’ormai attestata opera di azione in armi, la donna subisce un ritorno al passato di marca prefascista, in cui si annidano tuttavia i germi di quanto esploderà col movimento femminista. È questo tipo di figura che il melò pone al centro, traendo spunto da una stereotipia che pesca nella cultura popolare e di massa per essere poi stravolta, con incredibile lucidità, da registi già proiettati verso forme e problematiche future.
Tra questi vi è Alberto Lattuada, autore di smisurato talento che nel 1951 dà vita a un «memorabile polpettone erotico-religioso» [4] incentrato sulla figura di Silvana Mangano: Anna.
Forte del successo di Riso amaro (1949), la pellicola prodotta da Ponti ripropone uno schema rodato e riconoscibile, vera e propria carezza per il pubblico medio. Alla Mangano-eroina fanno da contorno, come figurine sullo sfondo, il farabutto Vittorio Gassman e il buono Raf Vallone. Il trattamento che spetta alla diva, tuttavia, è funzionale alla costruzione di un personaggio che incarni le contraddizioni di un’intera società e del modello di donna che ne è espressione, annullata su un ruolo materno che ne definisce i compiti in ambito domestico ed extra.
Il lavoro di cura ad essa connaturato si esplicita nella scelta di lavori che reiterano il mestiere di madre, secondo l’idea «di un’italica unità familiare (e sociale) faticosamente raggiunta» [5].
Così, prima che il movimento delle donne cominci a discuterne, Lattuada fa della sua Anna una suora-infermiera, emblema pieno e concreto della dedizione verso il prossimo. Le convenzioni del melodramma ci sono tutte, dall’elemento cattolico all’ambientazione contemporanea sino al drammatico, inevitabile, atto di sacrificio finale: la rinuncia all’amore in nome di un dovere superiore. Proprio la conclusione, tuttavia, segna il punto di rottura operato da Lattuada, il lavoro di sagace smontaggio critico del melò. La sua manipolazione è da ascriversi a un desiderio di riflessione sul rapporto tra i sessi, operazione pienamente realizzabile, nel suo obiettivo finale, proprio grazie al repertorio narrativo del genere più in grado di parlare al pubblico.
La conclusione, dunque, è la porta d’accesso un immaginario su cui si discuterà per decenni.
Anna, rincontrato in ospedale il lontano amore Andrea (Vallone), lo lascerà di nuovo andare per occuparsi dei malati. Il discorso del professor Ferri (Jacques Dumesnil), primario dell’ospedale, serve proprio a racchiudere il destino della donna entro il perimetro di uno spazio già dato, quello del dovere verso gli altri a scapito di se stessa. In tal senso, la scelta di affidare tale monito alla parola maschile si accompagna al deciso aspetto claustrofobico conferito all’ospedale. Attraverso un bianco accecante e un nero nettissimo, Lattuada definisce i contorni di figure schiacciate, quasi appiattite su un ambiente asettico che ha le sue regole, i suoi orari – sottratto al ritmo, dunque, di una vita normale.
La sensazione di clausura appare ancor più netta se letta alla luce del flashback che narra il passato di Anna come signorina di night-club, in cui lo schermo nero di ombre e musica sembra richiamare alla mente un mondo perduto, ormai da allontanare.
La natura “doppia” della protagonista – donna divisa, interiormente scissa come i migliori soggetti borghesi degli anni a venire – è risolta da Lattuada nell’indelebile e ineludibile marchio della «prigioniera» [3]. Ancorata al dovere, prigioniera del suo ruolo di madre, Anna non può che ritrovare unità soltanto attraverso la rinuncia al suo corpo, alla sua individualità, all’erotismo stemperato dal velo da suora. È un terreno d’analisi su cui si ragionerà per decenni, lasciando purtroppo spazio a reflussi, inevitabili come le ondate storiche. Il film di Lattuada ha dalla sua il merito di aver trattato il tema con vocazione nazionale-popolare, attingendo al repertorio del classico per intercettare le future coscienze. E in questo, nonostante le riserve di molti, resta senz’altro un maestro assoluto.
Tre motivi per vedere il film
- La celebre scena della Mangano che balla sulle note di El Negro Zumbon.
- L’impatto visivo costruito da Lattuada, con blocchi cromatici nettamente definiti.
- Il cameo dell’allora esordiente Sophia Loren, accreditata come Sofia Lazzaro
Quando vedere il film
Prima di affrontare i successivi film di Lattuada sull’immagine del corpo femminile.
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[1] R. Merritt, Melodrama: Postmortem for a Phantom Genre, in “Wide Angle”, 1983, 5, p. 25.
[2] cfr. E. Morreale, Così piangevano. Il cinema melò nell’Italia degli anni cinquanta, Roma, Donzelli, 2011.
[3] cfr. A. Bravo, Simboli del materno, in A. Bravo (a cura di), Donne e uomini nelle guerre mondiali, Bari, Laterza, 1991.
[4] V. Spinazzola, Cinema e pubblico. Lo spettacolo filmico in Italia 1945-1965, Roma, Bulzoni, 1985, p. 29.
[5] P. Valentini, L’immagine della donna, in Storia del cinema italiano, vol. IX, 1954-1959, a cura di S. Bernardi, Venezia, Marsilio, 2004, p. 388.
[6] E. Morreale, Così piangevano, cit., p. 261.