Devi pensare alle bollette, al mangiare e a qualche squadra di calcio di merda che non vince mai, ai rapporti umani e a tutte quelle cose che invece non contano quando hai una sincera e onesta tossicodipendenza.
Titolo originale: Trainspotting
Regia: Danny Boyle
Sceneggiatura: John Hodge
Cast principale: Ewan Mc Gregor, Robert Carlyle, Ewen Bremner, Jonny Lee Miller, Kevin McKidd
Nazione: Regno Unito
Anno: 1996
“Trainspotting”, secondo film di Danny Boyle, uscì nel 1996 e ci mise poco a diventare un cult.
Due anni dopo l’esordio con “Piccoli omicidi tra amici”, il regista Danny Boyle gira un altro film in sodalizio con Ewan McGregor come protagonista e John Hodge come sceneggiatore: “Trainspotting”. La pellicola ha, probabilmente, un altro elemento in comune con l’opera d’esordio: è difficile da classificare, perché parte da un tema altamente drammatico e lo racconta (anche) con i toni del comico e del grottesco. Nel primo film è l’assassinio, nel secondo la dipendenza dall’eroina.
Nei 25 anni successivi abbiamo visto Danny Boyle cimentarsi con diversi generi e, soprattutto, film diversi tra loro: da “The beach” con Leonardo di Caprio a “The Millionaire”, il film entusiasmante sul destino di un ragazzo indiano con cui vincerà Oscar, Golden Globes e Bafta; dal claustrofobico “127 ore” alla commedia musicale “Yesterday”, che immaginava un mondo (orribile) senza le canzoni dei Beatles.
Ebbene “Trainspotting” diede il via a questa interessante – seppure numericamente limitata – filmografia.
Il soggetto è tratto dal romanzo omonimo di Irvine Welsh. Il titolo rimanda all’abitudine dei protagonisti di ammazzare il tempo osservando i treni che passano (con un significato metaforico non indifferente). Da questo si può facilmente intuire quanto questi ragazzi si annoino, quando non si drogano.
La storia racconta di un gruppo di eroinomani di Edimburgo, prevalentemente disoccupato, preda di un feroce disagio sociale ed economico evidente, attraverso il quale vengono raccontate le varie fasi di quella che il protagonista Mark Renton (Ewan McGregor) definisce “una sincera e onesta tossicodipendenza”. In un monologo iniziale – che sarà parafrasato e quasi rovesciato nel finale – dichiara di averla scelta come opzione indubbiamente preferibile alla banalità di una vita socialmente accettabile. Ciò nonostante, proverà più volte a disintossicarsi.
I personaggi sono sopra le righe, sospesi tra speranza e disperazione, a loro modo indimenticabili.
Con Renton si drogano Sick Boy (Jonny Lee Miller), un donnaiolo appassionato di Sean Connery, il goffo e pacifico Spud (Ewen Bremmer) e Allison una ragazza madre. Vivono di piccoli crimini per pagarsi le dosi.
Fuori dalla tossicodipendenza sono, invece, Francis Begbie (Robert Carlyle), che comunque è un delinquente violento quasi psicopatico e Tommy (Kevin McKidd), che conduce una vita onesta e sportiva. Purtroppo, però, anche quest’ultimo, lasciato dalla sua fidanzata e depresso, ad un certo punto vorrà capire cosa si prova a drogarsi: sarà quello che farà la fine peggiore.
Renton e Spud verranno arrestati e, mentre il secondo finirà in carcere, il primo deciderà di disintossicarsi. Non prima, però, di “spararsi un’ultima pera” e finire in overdose.
Ormai pulito, vedere Tommy malato di AIDS porterà Renton a decidere di lasciare Edimburgo e trasferirsi a Londra, dove cercherà di rifarsi una vita tranquilla da agente immobiliare. I vecchi amici, però, lo coinvolgeranno presto in un ritorno al passato che lo metterà di fronte a un bivio.
“Trainspotting” è un film grottesco. Racconta il dramma dell’eroina in maniera cruda, estremamente realistica, a tratti disgustosa. Ne coglie la tragicità ma riesce a risultare, a tratti, comico.
Descrive, innanzitutto, un contesto familiare e sociale, quello della Edimburgo anni ’90, che sembra vivere ancora gli strascichi della recessione del decennio precedente e dell’era thatcheriana. Il romanzo di Welsh aveva, infatti, una connotazione politica molto forte, che nel film è stata messa da parte.
Ci saremmo sparati la vitamina C, se l’avessero dichiarata illegale
perché “quando il dolore se ne va comincia la vera battaglia”, spiega la voce narrante di Mark.
Irvine Welsh nel romanzo e Danny Boyle nel film non ci risparmiano niente.
Le scene sono esplicite: il tempo perso a casa dello spacciatore (“madre superiora”), il consumo in comune delle dosi, l’ultima pera prima del tentativo di disintossicarsi. Il pugno nello stomaco si sopporta solo grazie alla capacità degli autori di puntare sul registro del ridicolo e del grottesco. Più di qualche critico individua il cinema di Quentin Tarantino tra i riferimenti di Boyle per “Trainspotting”. Secondo Morandini l’ispirazione è arrivata anche da Scorsese, Almodóvar e “Arancia Meccanica” di Kubrick.
Mentre il direttore della fotografia Brian Tufano e lo scenografo Kave Queen si sarebbero ispirati, sempre secondo Morandini, “ai quadri di Francis Bacon, con la loro allucinata mescolanza di realtà e fantasia”.
Seguiamo i personaggi affrontare la disoccupazione, il disagio psicologico e sociale, i piccoli reati per comprarsi la droga fino alle conseguenze più gravi, lo spettro dell’HIV che li fa sentire in mezzo a morti che camminano (ovvero condannati a morte).
“Trainspotting” è stato il primo film che, in modo esplicito, racconta la tossicodipendenza dal punto di vista di chi la vive e, forse per questo, come scrive Morandini, “l’insolenza ribalda” dei personaggi suscita “pena e simpatia, più che paura o schifo”. Boyle e Hodge non hanno pregiudizi nel tratteggiarli, ma neanche offrono alibi alla loro deriva autodistruttiva.
All’uscita, 25 anni fa, fu accolto come un’esaltazione del consumo di eroina. Ma a torto: rivela, invece, implacabilmente il male assoluto della tossicodipendenza.
Renton deve affrontare anche i sensi di colpa per un bambino morto, per un amico iniziato all’eroina, per un altro andato in prigione mentre lui l’ha scampata.
Alla decadenza di Edimburgo si contrappone la Londra rutilante dove Renton, non a caso, cercherà la sua occasione di andare avanti.
I punti di forza del film sono la sceneggiatura, il cast e la colonna sonora.
Come già detto, la trama di “Trainspotting” è coraggiosa, non edulcorata, né accondiscendente. I dialoghi sono entrati subito nella cultura di massa: dalle battute riportate in questo articolo al celebre monologo di Mark “Chose life”, tre minuti che “fissano il tono di pesante satira sociale del film, talmente bruciante da essere stata fraintesa” (Giuseppe Pastore).
A pronunciare quei dialoghi, alcuni ottimi attori inglesi e scozzesi, per cui il film è stato il trampolino di lancio per il cinema internazionale: da Ewan McGregor (che si rivelerà un attore versatilissimo) e Robert Carlyle fino a Kevin McKidd (famoso per l’interpretazione del dottor Owen Hunt in Grey’s Anatomy).
Chiude il cerchio una colonna sonora perfetta, che ha contribuito a fermare le scene nella memoria dello spettatore, rendendo “Trainspotting” un cult. Si passa dalla musica classica, come l’overture della Carmen di Bizet al rock di Iggy Pop, passando per la “Perfect day” di Lou Reed, usata didascalicamente per accompagnare l’overdose di Renton.
3 motivi per guardarlo:
- per il monologo sarcastico del protagonista nelle due versioni all’inizio e alla fine del film su cosa scegliere tra la vita e la dipendenza;
- perché è il film simbolo della cinematografia britannica degli anni ’90: meno James Ivory, più Monty Python e Ken Loach;
- per la colonna sonora perfetta.
Quando vedere il film:
quando avete voglia di vedere un film per adulti, che fa un racconto crudo di una drammatica realtà.
Stefania Fiducia
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