Titolo originale: Risate di gioia
Regia: Mario Monicelli
Soggetto e sceneggiatura: Alberto Moravia, Suso Cecchi D’amico, Age&Scarpelli
Cast principale: Anna Magnani, Totò, Ben Gazzara, Toni Ucci, Fred Clark
Nazione: Italia
Anno: 1960
Mario Monicelli, reduce da I soliti ignoti (1959)e La grande guerra (1960), impianta una girandola di eventi grotteschi nella situazione più ridicola dell’anno: la notte di San Silvestro.
È un colpo da maestro, un dosaggio calibrato di ironia e dramma. Non c’è da stupirsi, ogni mossa del regista afferisce a un modello ri-declinato, libero da dinamiche che imbrigliano l’espressione. Le sue gag – cariche di compassione verso i soggetti – rifuggono meccaniche astratte per collocarsi, semmai, entro i confini dell’umano troppo umano. Sono i cascami della società a interessare Monicelli, qui coadiuvato da Cecchi D’Amico, Age e Scarpelli che impastano due racconti romani di Moravia.
Il risultato è sublime, con la coppia Magnani-Totò a suggellare l’impresa.
Qualcosa di commovente anima l’impianto di Risate di gioia (1960): è più facile coglierlo oggi, in un’epoca corrosa dai diktat dello spettacolo. Sia chiaro, Tortorella e Umberto sono improbabili guitti, disperate macchiette alla ricerca di un ‘posto’. Eppure, nello squallore del loro tempo, recano tracce vive di un’antica purezza. Si incontrano per caso, al centro di una Roma che li pone ai margini. Lei, generica di Cinecittà, aspetta in piazza Esedra i compagni di serata. Lui, ex vedetta del varietà, è istigato ai piccoli furti da un tagliaborse senza morale (Ben Gazzara).
Reclutati al fotofinish – tappabuchi indesiderati – passano da un veglione all’altro inseguendo chimere, mentre attorno si compie il rito dell’il-lusione di massa.
C’è, in quest’errare sghembo, una malinconia che incide le carni. Tutto è all’eccesso, l’ipertrofia domina la scena. Mirabili, in tal senso, le sequenze dei party, sguaiati coacervi di umanità livellata, templi consacrati al dio del benessere. Qui, con un effetto di décalage, Monicelli dà corpo all’estraneità della coppia, allo stigma del vinto che ne segna i destini.
La sovrapposizione personaggi-attori è studiata, per Tortorella e “Infortunio” si pesca nel repertorio della Magnani e Totò giovani. Il loro Geppina Geppi, mirabilmente accompagnato dal jazz di Luttazzi, è una sorta di inno alla diversità, incastrato fra battute viete e spensieratezza “un tanto al chilo”. Gli astanti non mostrano di apprezzarlo, così come non crederanno alla sceneggiata finale.
Ogni passaggio, nell’opera di Monicelli, rivela uno sguardo inattuale: c’è affetto verso i “vinti”, la nobilitazione di chi vive altrove.
Il macchinista della metro (un commovente Mac Ronay) è qui emblema dell’impermanenza degli effetti, della visione alterata di certi rapporti. Salutato dalla moglie tra affranti sospiri («Senza de te nun celebramo gnente… bevemo un goccetto de brodo caldo e tutti a letto») è abbandonato «sottoterra» mentre l’arrosto è in forno. Perfida costruzione la famiglia, squassata anch’essa dal consumismo vorace.
L’ingenuità – fuoco primario dell’opera – si insinua tra le pieghe di un tessuto smagliato. Persino Lello, cinico opportunista, subisce il peso di una «società fracica», effigiata nel volto del crasso statunitense (Fred Clark), negli sguardi glaciali dei ricchi tedeschi. La sua ennesima truffa – sventata con umiliazione – innesca la vena tragica del miglior Monicelli, qui portata alle estreme vette nella sequenza in chiesa.
«Miracolo, miracolo!» urla una Magnani ferita e infelice.
È una pantomima di maniera, l’applicazione reale di quanto appreso al cinematografo. Il pubblico è però altro, il diaframma tra realtà e finzione è sottile e crudele. Non c’è posto, nel mondo opulento, per chi dissimula goffamente la propria vera a-socialità. Come suppellettili lanciate nel vuoto, nella sospensione posticcia di un Capodanno vacuo, Tortorella e Infortunio si lasciano accompagnare al posto loro assegnato: quello del tredicesimo ospite a tavola.
Tre motivi per vedere il film:
La souplesse di Totò, le sue espressioni fuori dal tempo
La risata splendida e crudele di Anna Magnani
La sequenza della “pioggia” di suppellettili
Quando vedere il film:
In questo periodo dell’anno, per meditare sulla vacuità dei modelli indotti
Ginevra Amadio
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