Possessed, Clarence Brown e il mito Crawford-Gable

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Clarence Brown rivela in Possessed il potenziale umano e artistico di una coppia da sogno.

Titolo originale: Possessed
Regista: Clarence Brown
Sceneggiatura: Lenore Coffee
Cast principale: Joan Crawford, Clarke Gable, Wallace Ford, ‘Skeets’ Gallagher
Nazione: Stati Uniti d’America
Anno: 1931

Crawford e Gable tra fascino e attrazione

Attrazione, fascino, naturalità dell’espressione: Joan Crawford e Clark Gable istituiscono una corrispondenza sensoriale che si traduce – nell’osmosi tra schermo e vita – in una desiderio di fare e sapersi osservare. Coniugando discrezione e una sprezzatura quasi innata, i due attori – pervicaci ma suggestionabili – finiscono per convincersi che la vita li ha messi insieme, accrescendo così un realismo già tracimante dallo schermo.

Possessed

In Possessed i colleghi-amanti recitano insieme per la terza volta, in quella che per la Crawford è l’ultima pellicola del 1931. Sofisticata prova registica, l’opera fotografa l’atteggiamento di una giovane della working class durante la Grande Depressione; insoddisfatta del lavoro di operaia, Marian intravede nel vivace Wally Stuart (‘Skeets’ Gallagher) un’occasione di riscatto e fuga verso l’“alto”.

Borghesia e sogni di gloria

Abbandonato il compagno, sedotta da «champagne e tentazioni»[1], la donna percorre le fasi di un nuovo inquadramento sociale squadernando i desideri della mentalità borghese. Nell’identificazione del successo col matrimonio, Marian rivela i retaggi di una cultura patriarcale che sopravvive, strenuamente, nelle pieghe dei vissuti. Il regista Clarence Brown sceglie di mostrarla attraverso lo schema del  mito della ricchezza, sorta di idolo cui innalzare ogni preghiera o sacrificio.

Il mito della ricchezza

Le sequenze iniziali mettono a fuoco quest’orizzonte per tramite del confronto tra Marian e il fidanzato (Wallace Ford), custode di una fabbrica e campione del proletariato. La scena è quasi neorealistica, con case di legno e ferrovie, strade spoglie e un’umanità provata. I due camminano sui binari, lui le domanda se è stanca, cosa vuole dalla vita, lei risponde: «Non lo so, so solo che qui non lo troverò di sicuro». È un attimo e la sequenza muta, o meglio si carica di sovrapposizione dal significato profondo, anticipatore: un treno scorre e la ragazza vede immagini di opulenza scorrerle davanti agli occhi, come un film di cui, ancora, non è protagonista.

Ascesa o tormento?

Dai fotogrammi – come da una fauna indistinta e lucente – emerge un signore di mezz’età dall’aspetto impeccabile, tipico esponente della classe agiata cui Marian spera di accedere. «Nella grande metropoli… per cominciare a vivere nel posto giusto. I miei abiti, le mie scarpe, le mie mani, il mio modo di parlare: tutto quello che ho è sbagliato!».

Lo stigma del vinto

La condizione della giovane è comunque segnata da uno stigma doloroso, come un personaggio quasi verghiano (più Mastro Don Gesualdo che ‘Ntoni), Marian sconta un’esclusione sottile, quell’accettazione soltanto parziale che ne marca il carattere di ‘vinta’.

Mentre Stuart è sbronzo, la donna giustifica la sua presenza con franchezza («Sono qui per me stessa») ed egli coglie l’occasione per rivelare un distacco misogino e classista: «Una ragazza non ha che un mezzo per cavarsela in questa città… trovarsi un uomo ricco. Gli uomini non deve mai guardarli negli occhi, ma nel portafoglio».

Gable, un colpo da maestro

È qui che Clarence Brown inserisce un colpo ad effetto studiato. Quando la Crawford fa per andarsene, il rientro brusco nell’appartamento sa di provocazione e sogno. Oltre a Stuart altri due uomini riempiono la scena: un ricco anziano e un giovane fascinoso. È a quest’ultimo che Marian cede, mentre la cinepresa di Clarence Brown accarezza un sorriso e occhi inconfondibili. Clark Gable, nel suo aspetto più classico, interviene a dar nerbo a una vicenda in fondo nota.

Tra vita e opera

La sua interpretazione, unita a quella della Crawford, crea un’atmosfera dai contorni naturali, realistici e coinvolgenti. L’autenticità del rapporto mette in luce le loro qualità attoriali e si rivela, al contempo, incredibilmente aderente alla vicenda.

Entrambi sposati, gli attori non andranno mai – come ricorda Walker – al di là dei confini di una relazione. Nel film di Clarence Brown, il divorzio metterebbe in pericolo le ambizioni politiche di Mark (Gable), nella realtà le complicanze – forse – non valgono la pena.

Amore, ma quale amore?

Quel che rimane è l’audacia di un’opera che si alimenta della vita e ne costeggia i territori. Come dichiara Walker, «per i suoi tempi [la pellicola di Clarence Brown] era un lavoro ardito: riconosceva che a volte era auspicabile l’amore senza il matrimonio»

Tre motivi per vedere il film

  • Il feeling tra Clark Gable e Joan Crawford
  • I meravigliosi abiti di scena
  • Le sequenze in anticipo sul neorealismo nostrano

Quando vedere il film

In una sera d’estate

Note

[1] A. Walker, Joan Crawford. L’ultima diva, Milano, Garzanti, 1989, p. 78.
[2] Ivi, p. 79.

Ginevra Amadio

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Giornalista pubblicista, laureata in Lettere e Filologia Moderna. Lettrice seriale, amante irrecuperabile del cinema italiano e francese.

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