Agnes Varda dà vita a un film amaro, di raffinata brutalità.
Titolo originale: Le bonheur
Regista: Agnes Varda
Sceneggiatura: Agnes Varda
Cast principale: Jean-Claude Drouot, Claire Drouot, Olivier Drouot, Sandrine Drouot, Marie-France Boyer
Nazione: Francia
Anno: 1965
«Adesso certamente posso guardare a un film con un’ottica molto diversa per tutto ciò che si è sviluppato in questi ultimi anni, per i libri che ho letto, o perché mi sono autoeducata in senso femminista, come facciamo tutte adesso, avendo tutte questa possibilità. Le cose mi sono più chiare ora, ma non lo erano così quando giravo Le bonheur».
Così si esprime Agnes Varda in un’intervista del 1976 [1] che colpisce per schiettezza e onestà analitica, qualità rare in un tempo già segnato da bisogni (auto)indotti di preveggenza e miti infallibili.
La ‘madre’ della Nouvelle Vague, naturalmente avversa all’uso di etichette ingabbianti, ricostruisce a posteriori il peso esercitato dalle rivendicazioni femminili nella sua poetica. A fronte di un influsso consapevolmente incamerato nelle pellicole degli anni Settanta, Agnes Varda attribuisce a una sorta di sensibilità pre-consapevole le riflessioni sviluppate in Cléo de 5 à 7 e Le bonheur, film quest’ultimo arrivato in Italia col titolo Il verde prato dell’amore.
Agnes Varda e il ‘realismo d’intervento’
L’attenzione – latente eppure acutissima – alla condizione della donna fa dell’opera della regista un preciso documento di denuncia, la sede di un realismo d’intervento potentemente sviluppato nella banalità della trama. Il fatto che la regista agisca, per sua precisa ammissione, sotto l’impulso di un’ancora indefinita coscienza rende i film in questione (senza dimenticare la prova de Les Créatures) un interessante campo d’indagine sulle spinte che caratterizzano il periodo, vero e proprio magma in ebollizione prima dell’esplosione contestataria.
Le pellicole di Agnes Varda come mezzo disvelante
In tal senso – adottando ancora una volta l’ottica del senno del poi – le pellicole vardaniane del pre-Sessantotto si assumono il compito di mostrare allo spettatore il fondo della normalità, il nodo invisibile di uno status quo socialmente accettato. François Chevassu afferma che la macchina dell’autrice illumina ciò che «non siamo mai stati capaci di vedere» [2] e non è merito comune quello di condurre al disvelamento per mezzo dell’arte. Le bonheur è a tal proposito un film emblematico. Precisamente inserito negli schemi del dramma amoroso, esso sviluppa una trama di spiazzante linearità, «un puro dato […] portato a termine senza traccia d’esitazione o di ripensamenti» [3].
Le bonheur
François (Jean-Claude Drouot) e Thérèse (Claire Drouot) sono una coppia felice con due figli bellissimi e un grande amore per la campagna. Nel mezzo dell’idillio cromaticamente stilizzato (è sapiente l’uso dei colori pastello da parte della Varda, la derivazione dichiaratamente impressionistica volta a riprodurre – anche in interni – le sensazioni suscitate e incarnate nel paesaggio) si colloca l’incontro di lui con Émile (Marie-France Boyer), affascinante portalettere dai tratti angelici, volto terribilmente sovrapponibile a quello della moglie. La sconcertante naturalità degli eventi conduce i due a intrecciare una relazione che nulla sottrae – nell’universo egotico di François – all’amore per Thérèse.
Maschile e femminile
Non c’è malizia nelle intenzioni del giovane, né alcun proposito di clandestinità; la felicità accresciuta da Émile è confessata alla consorte con placida schiettezza, come un dono toccato in sorte e da con-dividere con gaudio. Com’è evidente – sebbene lo spettatore sia sconcertato dalla sua remissività – Thérèse accetta il destino impostole, e dopo un ultimo singulto di gioia sparisce tra i campi. François e i bambini se ne accorgono solo al momento del risveglio, a conferma di una vicenda che segue i bio-ritmi del protagonista uomo in quanto perno dominante.
Instillare il dubbio
Dopo una breve ricerca Thérèse riaffiora vicino al lago, annegata nel suo abito a fiori e circondata da vegetazione. Con fotogrammi alternati Agnes Varda mostra la disperazione del marito e gli ultimi tentativi della giovane di salvarsi dall’acqua. Un espediente chiaramente volto all’instillazione del dubbio, fondamentale chiave d’accesso alla coscienza dello spettatore. Thérèse si è data la morte o è caduta accidentalmente in acqua? Il suo annaspare è sintomo di un ripensamento o piuttosto il gesto di un’estrema ribellione?
Agnes Varda e «gli alberi»
La «cornice pastorale» [4] entro cui il dramma si sviluppa trova una precisa ragion d’essere nella dichiarazione resa da Agnes Varda nel 1970, quando riferendosi a Le bonheur indicò il suo nucleo tematico nella presenza degli «alberi». «Perché gli uomini si comportano come alberi. E se osservi gli alberi da vicino, per un certo tempo, noterai che anche loro cambiano, come gli uomini. Tutti sono rimpiazzabili, si dice, ed è vero, ma solo in termini di funzioni di una persona. E così per ogni singolo albero. Unico e soggetto a cambiamento. È questa la natura» [5].
Simbologia vegetale
La morte di Thèrése, così come il tradimento del suo amore e la successiva sostituzione di ruolo altro non sono che fasi cicliche – pertanto inevitabili – dell’ecosistema patriarcale che Agnes Varda tratteggia con pennellate decise, affidando a colori e gesti il compito ingrato di parlare da sé. La simbologia vegetale, tanto presente nel film da assuefare sino al disgusto, accompagna lo spettatore dalla prima all’ultima scena, mettendo a punto una struttura circolare atta a mostrare la naturale introiezione di ruoli codificati.
Fiori come presagi
Sulle note dell’Adagio e Fuga in Do minore di Mozart François, Thérèse e i bambini si stagliano come figure indistinte sullo sfondo di un prato sfocato che si presenta simile – ma con colori più scuri – allorché Émile rimpiazza senza scossoni l’antica rivale in amore. Lo stesso abbigliamento della docile Thérèse reca stampato un decoro floreale che per Kaitlyn Quaranta enfatizza la sorte che a essa è assegnata: «l’essere fertile e produttiva» [6]. Il microcosmo affettivo della casa dei coniugi – brutale e asettico palcoscenico di una vita accettata – è costellato di fiori dall’aspetto posticcio, margherite e primule che sembrano preconizzare un fatale appassire.
L’indagine psico-sociale di Agnes Varda
La felicità che dà il titolo al film è effettivamente, e solo, quella dell’uomo che la persegue inesorabilmente, da individuo privilegiato quale Agnes Varda ce lo restituisce in accordo alla società, a una cultura del possesso che si annida persino nelle istanze rivoluzionarie del libero amore. Per François l’appagamento è un diritto inalienabile, e il buco nella trama operato dal decesso è presto ricucito dalla sostituzione di una donna con l’altra, senza che il suo idillio subisca variazioni.
Donne e lavoro domestico
Del resto Émile, stando alle parole mai peregrine di Agnes Varda, da «animal en liberté» diviene, una volta sposato l’uomo, «un pommier», pronto a donare più fiori, più mele – forse altri figli. Con le riconoscibili inquadrature al dettaglio, Agnes Varda ci mostra una donna ‘sezionata’, le cui mani intente a sistemare fiori e preparare la cena reiterano i medesimi gesti della prima moglie, intenta anche lei ad adempiere ai lavori domestici con certosino dovere.
Il femminismo di Agnes Varda
Ecco allora che la lucidità dell’autrice induce la pellicola a sfiorare, con sorprendente acuzie, le analisi successivamente sviluppate dalle femministe del Salario, intente a integrare un discorso sul capitale considerato fallace e incompleto. Potere femminile e sovversione sociale di Mariarosa Dalla Costa si porrà, di lì a poco, come organo propulsore per un ripensamento dei concetti cardine del marxismo, teso a forzare la nozione di ‘lavoro produttivo’ entro i confini delle case-ghetto [7].
La casa come luogo di lavoro
L’idea che l’attività della donna costituisca la ‘base invisibile’ dell’accumulazione capitalistica è (in)consapevolmente elaborata da Varda nella scena in cui François e Thérèse vengono mostrati simultaneamente nelle loro attività serali. Da un lato lui si rade; dall’altro lei prepara la cena per bambini. Rebecca DeRoo a tal proposito nota che questa «raffigurazione […] evidenza come la casa non sia un ritiro domestico per la donna, bensì un luogo di lavoro e un continuo ‘doppio turno’ dopo la fine della giornata lavorativa» [8].
Un lavoro d’amore?
Siamo forse lontani, con Agnes Varda, dalla concezione del lavoro extra-domestico come ‘duplice impiego’, fonte di illusoria liberazione della donna comunque costretta, tra le mura di casa, a un’attività di cura e supporto culturalmente ineliminabile. Come dimostra il confronto con l’occupazione di Émile – impiegata pubblica e con una sua cerchia sociale – la regista è senz’altro più avvezza a denunciare l’alienazione della cosiddetta casalinga, fisicamente ed emotivamente segnata da un ‘lavoro d’amore’ che assume come destino.
Cura e dovere secondo Agnes Varda
Sebbene Thèrése sia quella che Quaranta definisce «self-employed» [9] (è infatti una sarta semi-professionista), la sua attività condotta da casa la rende perfetto emblema dell’«homemaker», giacché la sua vita, come afferma DeRoo, «ruota attorno alla cura della propria famiglia» [10]. In tal senso, vien facile pensare al suicidio come conseguenza della convinzione di non aver compiuto il proprio ‘dovere’. Affiancata – e poi sostituita – da una donna che le somiglia, Thèrése si scopre guasta, incapace di rispondere a quelle esigenze che le hanno insegnato a soddisfare.
Un’estrema ribellione
Tuttavia c’è un’altra lettura che pare calzante. Come ricorda Massarenti, il commento di Barbara Halpern Martineau a Le bonheur parla di «un’esplosione nella testa della donna», un rumore sordo, particolare, che investe colei «che si accorge delle propria oggettificazione e di quello che le succede intorno» [11]. Il tonfo che investe Thèrése non mina alcun equilibrio nel mondo in cui vive. Rendendosi conto della sua condizione l’unico atto possibile è l’allontanamento dall’esistente, secondo un isolato (ed estremo) gesto di ribellione.
Tre motivi per vedere il film:
La peculiarità del cinema di Agnes Varda. Tra stilemi della Nouvelle Vague e soluzioni personalissime.
Mozart e i colori.
L’ondata di riflessioni che esso solleva.
Quando vedere il film
In una sera d’inverno, o un tiepido pomeriggio d’estate. La pellicola – come visto – segue e imita il ciclo delle stagioni.
Note
[1] J. Levitin, Mother of the New Wave: Interview with Agnès Varda, in “Women and Film”, n. 5-6, 1976.
[2] F. Chevassu, in “Image et son”, n. 184, maggio 1965.
[3] C. Ollier, in “Cahiers du cinéma”, n. 165, aprile 1965.
[4] K. Quaranta, Dresses and Children: The Myth of Domestic Happiness in Varda’s Le Bonheur, in “Romance e Rewiew”, 21, Language is Never Innocent, 2017, p. 1. Il numero di pagina fa riferimento alla versione in pdf del singolo articolo.
[5] G. Gow, The Underground River.Interview with Agnès Varda, in “Film and Filming”, 16, marzo 1970, poi in T. Jefferson Kine (a cura di), Agnès Varda. Interviews, Jackson, University Press of Mississipi, 2014. Quanto alla traduzione ho riportato quella di F. Massarenti in Le felicità cicliche di Le bonheur (1965), in “Speciale Ghinea #5: Agnès Varda (prima parte)”, 15 ottobre 2019.
[6] K. Quaranta, Dresses and Children, cit., p. 2.
[7] M. Dalla Costa, Potere femminile e sovversione sociale, Venezia, Marsilio, 1972.
[8] R. J. DeRoo, Unhappily ever after. Visual irony and feminist strategy in Agnès Varda’s Le Bonheur, in “Studies in French Cinema”, 8.3, 2008, p. 205. La traduzione è mia.
[9] K. Quaranta, Dresses and Children, cit., p. 2.
[10] R. J. DeRoo, Unhappily ever after, cit., p. 200. Traduzione mia.
[11] B. Halpern Martineau, Subjecting her Objectification, or Communist is not enough, ed Claire Johnson Notes on Women’s Cinema, Society for Education in Film and Television”, 1973. La traduzione riportata è di F. Massarenti in Le felicità cicliche di Le bonheur (1965), cit.
Ginevra Amadio
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