Il cinema d’avan-guardia sperimentale ha visto, una massiccia presenza di donne dietro la macchina da presa. Tuttavia è solo negli anni ’70 con la Feminist Avant-garde che assistiamo ad una vera e propria esplosione e ritorno di un numero consistente di cineaste. Le motivazioni hanno non solo una matrice economica in quanto produrre cinema d’avanguardia speirmentale avevano costi bassi, l’altra ragione è politica. Gli anni 70 sono ricchi di lotte per i diritti e l’uguaglianza tra i generi. Proprio in questo contesto anche nella filiera cinematografica si attivano le prime rivendicazioni soprattutto in ambiente anglo-americano.
In tal senso, contribuiscono tre fattori:
1. riflessione e decodifica delle strutture sociali dominanti. È in questa fase che emergono tematiche legata alla marginalità dei
ruoli femminil. Da qui l’esigenza di superare la condizione predefinita per conquistare spazi e ruoli diversi.
2. Il secondo fattore è legato al diffondersi dell‟“Independent Cinema” e di conseguenza una crescente presenza di donne alla regia. In questo periodo sono circa duecentoquaranta i film europei e americani diretti da donne e proiettati nei diversi Women’s Film Festival.
3. Il terzo fattore è rappresentato dal ruolo attribuito nei film all’immagine femminile. [1]
L’attenzione per il genere femminile nel cinema è forte in questo tempo. Le donne sono sempre più impegnate nei diversi festival, nelle retrospettive promosse da cooperative o enti locali o ancora presso convegni universitari. Si pubblicano le prime antologie che restituiscono in maniera fedele e attenta il quadro della riflessione (come Woman in the Cinema di K. Kay e G. Peary o Woman in Film Noir di E. A. Kaplan) e si aprono insegnamenti universitari di cinema nell‟ambito dei Women’s Studies.
Sempre in questi anni, in Italiana, nasce kinomata, un collettivo artistico e politico che si preoccupa di smuovere e celebrare il protagonismo femminile dietro la macchina da presa, ponendo molta attenzione alla condizione femminile. Nel collettivo troviamo Anna Carini, Loredana Dondi, Annabella Miscuglio, Rony Daopulo.
A inizio anni settanta il cinema femminista si incarica di narrare il desiderio femminile attraverso traiettorie trasgressive e un linguaggio che abbandona la retoria voyeuristica. [2]
In quest’ottica rivoluzionaria, in linea con l’epoca di ribellione che stava attraversando la politica italiana[3], non possiamo non citare Liliana Cavani che sfida il moralismo del tempo, al pari di Lina Wertmuller, non temendo le censure della Rai, per la quale lavorava. Nata in una famiglia anticonformista, cresciuta a pane e cinema, la cineasta è riuscita a squarciare un velo sull’indicibile che accade tra uomo e donna, su potere e assoggettamento, masochismo e sadismo, accettando il prezzo delle polemiche e dei rifiuti[3]. Proprio come la collega Wertmuller si dissocia dalla mera lotta uomo-donna e da una direzione che si focalizza solo sulla diversità e fragilità della donna. La Cavani va oltre e squarcia un velo sull’indicibile che accade tra uomo e donna, sul potere e assoggettamento, masochismo e sadismo, accettando il prezzo delle polemiche e dei rigiuti, e parallelemente raccontando in bianco e nero, spogliato di tutto, le vicende di San Francesco d’Assisi. [4]

La cineasta è un paradosso vivente, donna, regista e intellettuale, Liliana Cavani racchiude la sua singolarità nelle sue opere che diventano un “luogo” dove la cineasta non teme intessere pellicole ricche di irrequietezza spirituale, conflitti, inquietudini. Un cinema semplice eppure aulico e profetico. Ricordiamo le tre pellicole su san Francesco, Chiara d’Assisi di Clarisse, dalla trilogia tedesca con Il portiere di notte, Al di là del bene e del male e Interno berlinese al rarefatto Il gioco di Ripley (Ripley’s Game)[5] Man mano l’intero corpus filmico della Cavani assume connotazioni sempre più simboliche, psicoanalitiche, non offrendo quindi mai acquisizioni sicure, ma proponendo sempre degli interrogativi. Il suo cinema è più volto a dividere che a suscitare consensi, a problematizzare la riflessione, la considerazione critica[6].
Il suo essere stata una donna della resistenza emerge anche nella sua pellicola di maggiore successo: “l portiere di notte (1974)”. Sebbene abbia avuto più accoglienza in Francia che in Italia, attraverso la pellicola la cineasta reinterpreta e rilegge il nazismo. Un lavoro che nasce dalla sua inchiesta sulle donne nella resistenza. Il film racconta l’ambiguo rapporto erotico carnefice/vittima, – preparando il terreno al filone sexy nazi che non si prende mai sul serio e mantiene toni allegri e di imbarazzante ambiguità – dove a tratti vengono superati i limiti, intrecciando perfino elementi del bondage col fascismo[7].
Le donne raccontate da Lina Wertmuller o da Liliana Cavani sono pensata per scardinare il tetto di cristallo destando stupore tra gli spettatori. [8]
In questo processo innovativo non possiamo non citare Agnes Varda, una voce unica nel coro Nouvelle Vaguee, etichetta da cui ha preso spesso le distanze. Il suo estro creativo diventa un marchio indelebile nel cinema del tempo che lo condiziona e lo rivoluziona grazie all’uso di tecniche cinematografiche innovative. Fu una delle prime cineaste, insieme forse a Michelangelo Antonioni, che comprese l’importanza del rapporto tra cinema e fotografia. Agnes Varda racconta di donne forti, ed eroine, della cui quotidianità ne esplora la condizione femminile e il rapporto con la società.
Tra le sue opere troviamo il lungometraggio La pointe courte, Il verde prato dell’amore e Senza tetto né legge.
Fu una delle prime donne ad essere candidata all’Oscar, e la prima a vincere un Oscar alla Carriera nel 2018.

In questa fase di transizione cinematografica non possiamo non raccontare del cinema di Chantal Akerman. La sua impronta nella filiera cinematografica non è passata inosservata. Una delle sue opere più importante è Jeanne Dielman, 23, quaidu Commerce, 1080 Bruxelles nel 1975, Il New York Post definisce questo film come “Il primo capolavoro femminile della storia del cinema”. L’iperrealismo che pervade la pellicola è espressione della sua scia sperimentalista che pervade il cinema negli anni ’70. La cineasta belga osa ulteriormente anticipando i tempi con un approccio “real time” che caratterizza il cinema d’oggi. La sua azione gira intorno all’associare dei piani fissi alla logica cronologica, il mantenere sempre lo spettatore a un certo livello di coscienza, Akerman configura il tempo della narrazione in immagine cinematografica. Cifra stilistica e dono raro nella cinematografia contemporanea[9]. Il suo fare cinema è espressione di una forte introspezione. L’ambiente diventa il principale canale comunicativo, le luci, la fotografia sono supporti “sensoriali” che vanno oltre il verbale e aiutano lo spettatore a scandire il tempo che nella sua “realtà” è lento con gesti ripetitivi quasi rituali. Questo approccio richiama una forte autoreferenzialità, puntato ad espressioni che ruotano intorno al rapporto con la madre, al suo essere viaggiatrice, alle sue relazioni. Ed è proprio nel sua prima pellicola Je, tu, il, elle (1974) che emerge l’omosessualità della regista. Il film si divide in ben tre tappe, nella terza la protagonista arriva a casa dell’amica di cui è innamorata. Il film si conclude con una sequenza d’amore tra le due: lo stile è voyeuristico ma le scene sono esplicite. Una scelta coraggiosa per l’epoca. [10]

Genitrice di un nuovo linguaggio espressivo nella filiera cinematografica, le sue opere sono sempre state esigenti ed essenziali. A riprova di quanto la Akerman sia stata una presenza influente e di spessore troviamo il film Carol (2015) – diretto da Todd Haynes. Il regista dedica questa pellicola alla cineasta belga – candidato a sei Oscar e vincitore, a Cannes 2015, per la migliore interpretazione femminile (Rooney Mara).
Individuare le più grandi registe degli anni ’70 non è stata un’operazione facile, soprattutto per chi, come me, non ha studiato storia del cinema ma ne scrive per passione e curiosità. A riprova della difficoltà di reperire materiali e le informazioni vi è la visione estremamente maschilista della regia. Si parla quasi sempre dei soli registi, si stilano classifiche, Entertainment Weekly, Vanity Fair sono un esempio di quanto il genere maschile abbia governato e continua a governare la regia, come se il genere maschile ne possedesse tacitamente un monopolio.
[1] F. Casetti, Teorie del cinema, 1945-1990, Milano, Bompiani, 1993, p. 243.
[2] L. Buffoni (a cura di), We want Cinema – Sguardi di donne nel cinema italiano, Marsilio Editore, 2018
[3] Ibidem
[4] F. Fracasso, Dietro la macchina da presa: professioniste del cinema italiano contemporaneo, 2019 https://www.academia.edu/41855611/Dietro_la_macchina_da_presa_professioniste_del_cinema_italiano_contemporaneo
[5] L. Buffoni (a cura di), We want Cinema – Sguardi di donne nel cinema italiano, Marsilio Editore 2018
[6] Angela Bosetto, Liliana Cavani. Il cinema e i Film. Rivista del Cinematografo Pag. 78 N.10 – OTTOBRE 2021 https://www.marsilioeditori.it/media/rassegna_stampa/rcf21a012971134.pdf
[7] Al di là del bene e del male. Il cinema di Liliana Cavani, https://www.fondazionecsc.it/evento/al-di-la-del-bene-e-del-male-il-cinema-di-liliana-cavani/
[8] Jacek Górecki, Una regista disubbidiente, https://www.gazzettaitalia.pl/liliana-cavani-una-regista-disubbidiente/
[9] C. Rubessi, Chantal Akerman, http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/chantal-akerman/
[10] L. Buffoni (a cura di), We want Cinema – Sguardi di donne nel cinema italiano, Marsilio Editore 2018
Angela Patalano
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