Carol, l’amore che non si può dire

A volte, per qualche bizzarra, inspiegabile, felice congiunzione astrale, accade qualcosa di perfetto.

Dopotutto, vedendo Lontano dal Paradiso e poi Mildred Pierce, il tocco di Todd Haynes pare l’approdo naturale per portare sul grande schermo un romanzo degli anni ’50 di Patricia Highsmith su una relazione omosessuale tra due donne. E conoscendo il look etereo di Cate Blanchett, ed il volto misurato e timido di Rooney Mara, i ruoli sembrano cuciti loro addosso. Non c’è ovviamente alcun disegno divino dietro, solo un progetto baciato dalla perfezione e dal talento di chi ci ha messo mano. Carol appartiene a quella categoria di film che trasporta per due ore in un’altra dimensione, e fa credere definitivamente che il cinema sia pura arte, forse la più completa possibile.

 

Non è comunque il caso di iniziare a scomodare paroloni, iperboli e grossi aggettivi, perché Carol, pur meritandoli tutti, non ha bisogno di un approccio simile. Un film misurato, fatto di parole non dette, sguardi che raccontano un mondo senza dire nulla, silenzi, emozioni soffocate, un calore talmente avvolgente da non aver bisogno di morbose sottolineature. Carol è totalmente incentrato sulle emozioni delle due protagoniste, non tanto sulla loro relazione tormentata ma più che altro su quello che comporta in loro stesse amarsi e farlo in quella società. Essenzialmente quindi si, è un grande storia d’amore, ma ciò che rende universale e senza tempo l’approccio di Haynes – non a caso anche l’aspetto omosessuale, che conferma il regista come simbolo del lato artistico del cinema queer odierno, è estremamente delicato – è l’attenzione dedicata ai sentimenti interiori. Carol è un film sulle sensazioni che si provano quando ci si innamora e sulle difficoltà, a prescindere dai motivi, nell’esprimerle. Molti faranno paragoni soprattutto estetici – errore madornale – con Lontano dal Paradiso, indicando Haynes come un regista bloccato “solo” su un gusto vivamente retrò; in realtà con questo film il regista si affranca molto dall’ombra di Douglas Sirk, primaria ispirazione per quella sua precedente opera, e semmai si avvicina, almeno a mio giudizio, al cinema di James Ivory, specialmente per il lato tematico. Si, alcuni passaggi di Carol mi hanno ricordato quel capolavoro di Quel che Resta del Giorno, quella censura autoimposta di esprimere e comunicare sentimenti che poi finisce per travolgere tutto il proprio essere umano.
Haynes più che regista è qui un direttore d’orchestra, l’attento conduttore di una sinfonia di silenzi che hanno il loro apice negli occhi delle due attrici. Dopotutto un film così incentrato sulla comunicazione repressa delle emozioni deve avere due interpreti perfette, senza se e senza ma: Cate Blanchett e Rooney Mara lo sono. La prima, che ormai ha deciso di non sbagliare più un film e si avvicina sempre più al titolo di miglior attrice contemporanea, pare uscita proprio dagli anni ’50, è ipnotica, suadente, gigantesca e fragile allo stesso tempo; la seconda è il vero fulcro del film ancora più della collega, quella tra le due che deve comunicare più cose senza parlare, e lei ha questo sguardo particolarissimo, molto timido e semplice, che al primo sorriso o alla prima lacrima sembra illuminare tutto il mondo circostante. Prendiamo il loro primo incontro nel grande magazzino – per me una scena obbligata a diventare un classico del cinema – un rapido ma intenso sguardo che racchiude il colpo di fulmine: in una sola occhiata capiscono già tutto.
Questo è il grande merito di Carol, creare una grande storia d’amore incredibilmente naturale, in cui non c’è spazio per lunghi corteggiamenti o non c’è bisogno di noiosi discorsi, le due si guardano e si amano, come fossero nate per stare insieme.
Carol è una un lavoro di pura arte perché alla forma eccelsa – scenografie, costumi, la bellissima musica, la fantastica fotografia sgranata che si distacca dai colori accesi “sirkiani” di Lontano dal Paradiso – riesce ad abbinare un sentimento che più è taciuto più acquisisce forza. Non ha bisogno di urli, non ha bisogno di rimarcare l’ovvio, non ha bisogno di stordire la passione stessa – Abdellatif Kechiche prenda nota su come si girano le scene di sesso – perché Carol ci ricorda che alla fine, soli con noi stessi, conta solo e sempre quello che abbiamo dentro, nel profondo, ed il modo in cui riusciamo ad esprimerlo e viverlo.
Emanuele D’Aniello
Malato di cinema, divoratore di serie tv, aspirante critico cinematografico.

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