Ogni volta che esce un nuovo film sugli zombi gli appassionati del genere (come la sottoscritta) vengono pervasi da una sensazione di gioia mista a timore.
Se George Romero ha reso cult il genere e la serie tv The Walking Dead ha reso il filone mangiabile anche in monodosi da un episodio alla settimana, c’è da dire che il confine tra un buon prodotto zombi e una “trashata” è sempre molto labile.
Su Netflix arriva Black Summer, la serie spinoff di Z Nation. In otto episodi vengono raccontati i primi giorni di terrore dell’apocalisse zombi. Cosa c’è di nuovo potreste – giustamente – chiedervi?
In primis, la struttura. Ogni episodio è dedicato a un personaggio differente e spiega tutta la strada fatta per arrivare ad incontrare gli altri. In questo modo si ha la possibilità di sapere con chi si ha a che fare prima che lo sappiano gli altri protagonisti.
Non solo è possibile conoscere la prospettiva dei vari personaggi, ma anche quella degli infetti: le parti interessanti di Black Summer sono quelle in cui una persona che prima vedevamo lottare per la sopravvivenza si trasforma in zombi.
In quel momento non si perde il focus sul personaggio, ma la telecamera continua a seguire il morto vivente nelle sue corse fameliche. Lo sguardo sull’infetto getta un velo di malinconia su questi pericolosissimi cannibali, che gridano come invasati inseguendo i loro pasti bipedi.
Emerge quasi un senso di frustrazione, nello spettatore, quando lo zombi non riesce a buttare giù la porta che lo separa dalla sua preda.
La trama in sé per sé spesso manca di fondamenta, ma soprattutto di dialogo. Tuttavia, ho avuto come l’impressione che questa serie abbia voluto mettere in scena più che altro le emozioni. Non è tanto il linguaggio verbale che fa la differenza, quanto le azioni di persone che combattono per la propria esistenza, con o senza empatia nei confronti degli altri. Questo chiaramente apre molti scenari di stampo squisitamente antropologico, che vi invito ad osservare.
Alessia Pizzi
Condivido pienamente quanto scritto nell’alrticolo, in particolar modo l’aspetto antropologico della serie tv. Guardandola ho trovato diversi spunti in comune con un romanzo, sempre a tema zombie, edito qualche anno addietro: “Storia di una non morte vissuta” , dell’autore Caos.
Ciao Aldo, mi fa piacere. 🙂 Chissà se ci sarà una seconda stagione!