Luciano di Samosata e le sue opere in pillole

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Biografia

Luciano nacque intorno al 120 d.C. a Samosata, capitale della Commagene di Siria. Alla sua origine barbara compensarono gli studi di grammatica e retorica, effettuati presso i sofisti in Asia Minore. Questo suo interesse verso la retorica fu dovuto ad uno spiacevole avvenimento presso la bottega in cui lavorava suo zio scultore, che aveva il compito di insegnargli l’arte.

Tuttavia, Luciano ruppe per sbaglio una lastra di marmo, per la quale seguì una forte bastonatura. La regione dalla quale proveniva era l’ultimo avamposto orientale dell’Impero in faccia al regno dei Parti, si trasferì sulle coste della Ionia, poi ad Atene, a Roma; infine, ebbe un incarico governativo in Egitto e, successivamente, si stabilì nuovamente ad Atene, dove rimase fino alla morte.

Alessandro o il falso profeta

Una delle opere più importanti ed interessanti di Luciano è Alessandro o il falso profeta, di cui è traduttrice la mia carissima professoressa del liceo Loretta Campolunghi.

L’opera risale agli ultimi anni di Luciano (dopo il 180 d.C.) ed è un pamphlet contro un famoso santone, che era riuscito, grazie alla sua furbizia immorale, a fare successo attraverso un proprio culto della personalità nella città di Abonuteico in Paflagonia. Tale truffatore aveva allestito una vera e propria industria del sacro, attraverso la vendita di oracoli e la manipolazione del fanatismo religioso.

[20]: «Per un uomo come te e, se me lo consenti, anche per uno come me, il segreto di questo imbroglio sarebbe stato evidente e facile da capire; ma per quella gente ignorante e con il moccolo al naso tutto ciò presentava un aspetto prodigioso e incredibile. Avendo infatti escogitato vari sistemi per aprire i sigilli, Alessandro riusciva a leggere ogni singola domanda e a ciascuna forniva la risposta adatta; poi, riavvolti i fogli, li restituiva sigillati, destando grande meraviglia nei postulanti

In questo punto Luciano si rivolge a Celso, il destinatario dell’opera; alcuni lo identificano con il Celso autore del Discorso Vero (᾽Αληϑὴς λόγος), opera polemica contro il cristianesimo.

La Storia vera

Una delle sue opere più importanti è la Storia vera: questa può essere considerata, infatti, il prototipo del romanzo fantastico. La trama consiste nel viaggio di una nave che, varcate le Colonne d’Ercole, arriva fino alla Luna, poi all’isola dei Beati e, infine, nel ventre di una balena.

Storia vera [1,4]: «Perciò pure io, per vanagloria, poiché desidero lasciare qualcosa ai posteri, per non essere solo io privo della libertà di favoleggiare, dal momento che non avevo niente di vero da narrare – non mi era infatti accaduto niente degno di nota – mi sono volto alla menzogna, però molto più onesta di quelle degli altri, infatti almeno in questo dirò la verità: dichiarando che mento

Nel proemio Luciano dice che l’unica verità è dire che tutto quello che è narrato è inventato. Questo, dunque, si ricollega alla critica contro la storiografia patetica (quel tipo di storiografia che accoglieva leggende, racconti popolari e elementi irrazionali perché non aveva, come fine, dire la verità, ma intrattenere il pubblico). Questa posizione di Luciano viene “teorizzata” già in un’altra opera, ossia Come si deve scrivere la storia.

Come si deve scrivere la storia

Come si deve scrivere la storia [41]:

«Io dico dunque che l’ottimo autore di storia deve essere in possesso dei due seguenti requisiti principali: intelligenza politica e capacità espressiva. La prima non viene insegnata ma è un dono di natura, la capacità espressiva invece uno se la deve acquisire con molto esercizio e continua fatica e imitazione degli antichi. […] Uno solo è il compito dello storico, raccontare i fatti come sono accaduti […]. Questa infatti è l’unica proprietà scientifica della storia: se uno si accinge a scrivere un libro di storia, deve venerare soltanto la verità e di tutto il resto non deve curarsi. Insomma, una sola è la misura e la regola perfetta: guardare non al pubblico dei contemporanei, ma a coloro che leggeranno l’opera in futuro. […] Tale dunque deve essere, a mio avviso, lo storico: senza paura, imparziale, libero, amante della libertà di parola e della verità; come dice il comico, che chiami «fico» il fico e «barca» la barca; uno che né per odio né per amicizia concede o tralascia qualcosa, che non ha compassione o vergogna o timore, un giudice giusto, benevolo con tutti ma solo finché non si conceda più del dovuto a una delle parti; nei suoi libri straniero e senza città, indipendente, senza re; uno che non sta a fare i conti su cosa penserà questo o quell’altro, ma che dice quanto è accaduto

Fin dalle prime righe è possibile notare l’estrema somiglianza tra la posizione di Luciano e quella di Polibio: il primo sostiene che si debba avere «intelligenza politica» come principale requisito; il secondo che la storiografia debba essere intesa in senso pragmatico, il cui aspetto principale non era una cultura essenzialmente libresca, ma un’osservazione diretta dei fatti e una grande esperienza politica.

In questo caso è fondamentale l’influenza di Tucidide, per il quale l’unico oggetto di interesse sono gli eventi politici e militari, come si può vedere, per esempio, dall’interpretazione data ai responsi dell’oracolo di Delfi. Tuttavia, a differenza di Polibio e Tucidide, in questo punto Luciano si sofferma anche su un altro aspetto: l’intelligenza politica intesa anche come intuizione, capacità personale, e che per questo «non viene insegnata ma è un dono di natura».

Il secondo requisito essenziale, la «capacità espressiva», dimostra quanto Luciano sia figlio dei suoi tempi: nel suo rapporto di adesione-repulsione con la corrente della Seconda Sofistica, Luciano si concentra su una storiografia che, per quanto tendente al vero, non debba essere per forza disadorna come quella di Polibio. È necessario dunque un minimo di attenzione alla forma, che comunque non deve superare, per importanza, il contenuto, come invece sostenevano gli esponenti della Seconda Sofistica. Si potrebbe dire, forse, che lo storico debba essere anche un minimo (ma non oltre!) oratore, e questo è possibile «con molto esercizio e continua fatica e imitazione degli antichi». L’idea che l’arte di parlare sia frutto di esercizio è presente anche nelle opere di Cicerone, dove però essa è anche associata, in parte, al talento personale. Nell’opera De oratore, per esempio, Cicerone polemizza con quanti hanno voluto dividere lo studio della parola persuasiva (retorica) dalla verità (per lui filosofia); questo messaggio non è, in fondo, tanto diverso da ciò che vuole dire Luciano. Per quanto riguarda il tema della «imitazione degli antichi», centrale è il problema della scelta dei modelli. Nella realtà romana, già Quintiliano, nell’opera Istitutio oratoria, si è soffermato su tale tematica: è necessario infatti partire prima da autori, come Cicerone, che possano essere positivi, esaminando solo in un secondo momento scrittori che, come Seneca, potrebbero influenzare negativamente con le loro espressioni barocche o tendenti all’asianesimo, proprio perché c’è il rischio di lasciarsi trasportare (si pensi per esempio al πάθος delle sue tragedie). Nondimeno, il tema dei modelli è presente anche nelle opere dello stesso Seneca: come si può vedere infatti dalla seconda delle Epistulae ad Lucilium, l’approfondimento culturale, per essere efficiente, necessita di una scelta accurata degli autori, in modo da non disperdersi in tante letture superficiali, ma focalizzarsi su letture di qualità.

Il compito dello storico

Successivamente viene ribadito il compito dello storico: raccontare i fatti come sono accaduti. Anche in questo caso, ci si ricollega con la visione prettamente pragmatica e politica tipica di Polibio e Tucidide: tale metodo è infatti “scientifico”, come dovrebbe essere secondo Luciano. Di conseguenza, è evidente il distacco da una storiografia patetica, che dava ampio spazio alla leggenda, o ad Erodoto: in quest’ultimo, forte è infatti la presenza dell’elemento favoloso e le varie imprecisioni cronologiche, proprio perché si cerca di forzare in modo da far scaturire considerazioni importanti (es. λόγος tra Solone e Creso).

Un ulteriore punto importante è il pubblico a cui si deve rivolgere l’opera storiografica: esso non è infatti costituito dai «contemporanei», un pubblico che, come fa notare Dario Del Corno, vuole soprattutto una letteratura d’intrattenimento e d’evasione, che lo possa sempre rincuorare (si vedano anche le commedie di Menandro), e che possa presentare quelle certezze che non riusciva a trovare nella sua epoca. Ma il vero pubblico a cui bisogna rivolgersi è composto da «coloro che leggeranno l’opera in futuro», ed è per questo necessaria una forte attendibilità nel raccontare i fatti.

Questa attenzione rivolta al futuro può essere facilmente ricollegata alla paura, causata dalla forza egemone romana, che la cultura greca possa essere dimenticata. Per questo motivo, dunque, in molti intellettuali dell’epoca è evidente un tentativo di collaborazione politica e culturale con Roma: Polibio tenta di interpretare i meccanismi della politica romana attraverso una prospettiva greca; in ambito biografico, Plutarco dà vita ad un processo di sincretismo, paragonando un personaggio greco e uno latino (Vite parallele), e cercando di trasmettere il più possibile dell’ambito filosofico attraverso dialoghi di breve o media lunghezza (Moralia). Anche lo stesso Luciano aveva modo di “denunciare” la situazione attraverso diverse opere: nell’opera Sugli stipendiati viene messa in evidenza la fatica da parte dell’intellettuale greco colto di aver a che fare con il padrone romano potente che, per quanto ignorante, e quindi incapace di apprezzare il suo lavoro, debba comunque servire come risorsa economica.

Successivamente, Luciano indica cinque caratteristiche che devono essere proprie del vero storico; la prima di esse è l’assenza di paura. Tuttavia, la mancanza di coraggio di molti storici è sicuramente dovuta alla forte minaccia del potere vigente: emblematica è la figura di Cremuzio Cordo, che vide i suoi Annales, dove i cesaricidi Bruto e Cassio sono visti come degli eroi per la loro difesa della realtà repubblicana, messi al rogo; Cordo si lasciò morire di fame, creando il mito della figura nobile e severa, che spezza la vita per difendere i suoi ideali. In tale ambito sarà poi Tacito, nell’Agricola, a criticare tale tipo di atteggiamento: questi “grandi gesti” (si pensi al suicidio di Catone l’Uticense) permettono sicuramente di ottenere grande ammirazione, ma non portano ad un effettivo e concreto miglioramento delle condizioni politiche e sociali. Non sarebbe meglio, allora, cercare di resistere il più possibile, pur passando in secondo piano? Per Tacito infatti il fine politico degli «uomini grandi», come lui stesso li definisce, risiede anche nel conservare quell’imperativo morale di fare sempre il possibile per il bene dello Stato, anche sotto un governo “tirannico”.

Inoltre, la seconda caratteristica tipica dello storico è l’imparzialità: si riprende ovviamente il tema del rapporto nei confronti o meno del potere, e questo lo si può notare soprattutto in due autori: le Historiae di Velleio Patercolo e i Factorum et dictorum memorabilium libri di Valerio Massimo.

La libertà dello storico

Oltre a ciò, Luciano si sofferma anche sul tema della libertà dello storico: egli infatti deve essere svincolato da qualsiasi forma di cortigianeria. Tale condizione, però, in un’epoca come quella imperiale, risulta un’utopia: tutte le forme di espressione artistica devono inevitabilmente fare i conti con il potere. A partire dagli anni del principato, infatti, è possibile notare questo atteggiamento encomiastico; l’opera più simbolica in questo caso è proprio il poema epico Eneide. Da una parte, appunto, la figura di Enea incarna il senso di valori romani come la pietas (devozione verso gli dei, la famiglia e la patria) e la fides (la parola data cui non viene mai meno); dall’altra è di capitale importanza il Libro VI, in cui Enea giunge ai Campi Elisi, luogo dove il padre Anchise gli indica le anime dei discendenti albani e romani. Il criterio cronologico su cui è fondata la rassegna si interrompe sul nome di Romolo, al quale viene accostato quello di Ottaviano Augusto.

Il messaggio che Virgilio vuole trasmettere è evidente: Romolo ha fondato Roma e Augusto l’ha rifondata dopo le guerre civili, restaurando i valori etici e religiosi delle origini (vv. 791-794). La poesia bucolica nell’età giulio-claudia viene fortemente influenzata dalla caratteristica elogiativa: ne sono esempi, appunto, la prima ecloga di Calpurnio Siculo, dove si celebra l’avvento di una nuova età dell’oro, caratterizzata da Pax e Clementia e dalla fine delle guerre civili, dove il garante è un giovane deus, protetto dagli antenati giulii (I, 45); anche nella quarta ecloga il motivo dell’età dell’oro e la celebrazione di un nuovo Cesare è presente. Tali riferimenti sono evidenti anche nei Carmina Einsidlensia, dove il riferimento è esplicitamente indirizzato a Nerone.

Livio

Inoltre, un altro esempio, forse più strettamente legato alla storiografia, è il caso di Livio: sebbene sia lodevole il tentativo di mettere a confronto fonti diverse (si veda il passo relativo all’Apoteosi di Romolo – Ab urbe condita I, 16), è comunque fortemente presente l’influenza della figura di Augusto e del potere che esercita, come si può notare dal forte πάθος con cui sono descritti certi passaggi (si pensi al testo “La storiografia ipotetica: se Alessandro avesse mosso guerra a Roma” – Ab urbe condita IX, 18, 8-19; 12-17 oppure “Il ritratto di Annibale” – Ab urbe condita XXI, 4), dove il taglio riflessivo serve per mettere in evidenza le virtù romane. Per quanto infatti fosse stato definito dallo stesso Tacito come un “Pompeianus” per indicare il sentimento filosenatorio e repubblicano di Livio, quest’ultimo cercò comunque di rappresentare la Roma di Augusto come il momento più splendente della storia, da cui si sarebbe avviata un’inevitabile decadenza.

Tuttavia, Luciano, quando parla di concetti come imparzialità e libertà, può anche intenderli in senso più ampio, non strettamente legato al potere: l’idea quindi di una storia non “di parte”, non influenzata da nessuna dottrina, ma in grado, quindi, di avvicinarsi all’oggettività. Un esempio molto evidente si trova nella seconda parte del poema De rerum natura di Lucrezio: in questo caso si vuole dare spazio ad una sintesi della storia dell’umanità, che da una condizione primitiva, con le sue sole forze, ha progredito verso forme sempre più complesse di vita associata e di civiltà. Lucrezio, ovviamente per la sua matrice filosofica, in questo e nel tema dell’utilizzo delle armi vede un peggioramento degli uomini: al posto della grande πόλις, troppo spesso fonte di turbamento per l’animo umano, contrappone una visione di vita molto più semplice ed aspra (si pensi al concetto del “Λάθε Βιώσας” e della visione negativa della politica, come fonte di turbamento, tipica dell’epicureismo). Importante in questo ambito è anche l’exemplum drammatico finale della peste di Atene: questo ritratto, ispirato all’opera di Tucidide, vuole proprio dimostrare uno dei concetti fondamentali già espressi precedentemente nel poema (De rerum natura V, 195-234), ovvero che “il mondo non è fatto per l’uomo”. In questi due casi, dunque, è evidente l’utilizzo dell’elemento storico per fini ideologici e divulgativi della dottrina di Epicuro, a tal punto da mettere in secondo piano l’oggettività storica. Un esempio analogo in cui l’elemento storico si intreccia con il motivo (vagamente) filosofico è l’opera epica Punica di Silio Italico: il pianto “stoicizzante” di Giove infatti si unisce all’esaltazione della virtus romana.

Il linguaggio comico

Un altro punto importante è il richiamo al linguaggio comico, tipico di Luciano: quest’ultimo infatti, esattamente come Voltaire, ha impiegato tutte le sue conoscenze culturali per ridicolizzare le superstizioni e gli aspetti più negativi della tradizione. Anche questo testo si inserisce in un atteggiamento critico nei confronti di una letteratura che troppo spesso dava priorità all’intrattenimento rispetto alla ricerca della verità.

Questa tendenza che porta a demistificare e ridicolizzare gli usi e i costumi della società antica ha anche dei punti di riferimento nella letteratura latina; primo fra tutti, Petronio nel Satyricon. In questo caso, l’immagine della nave citata da Luciano ritorna: nella seconda metà dell’opera, Encolpio e Gitone, i due protagonisti, si ritrovano sulla nave di Lica, con il quale avevano vissuto un’avventura erotica tempo prima. Come si può notare, la presenza della nave, ricollegabile al tema del viaggio, tipico dei romanzi ellenistici di cui il Satyricon è la parodia, è oggetto di trovate comiche come il travestimento, il riconoscimento, un conflitto molto “grottesco” ed il banchetto. Oltre a ciò, il tema della nave può essere inteso anche attraverso la metafora di un altro autore, molto abile nella satira: Orazio (Carmina I 14 – non presente sul manuale). Tutta la poesia è incentrata sulla metafora della nave malconcia, paragonata alla repubblica romana in un periodo di decadenza, ovvero quando ormai si nota che tutto il mondo culturale e di tradizioni ha perso la sua semplicità. La nave, in balia dei pericoli e dei flussi, è un’immagine classica presentata già da Alceo.

Narrare «senza amore né odio»

Un altro punto essenziale del testo di Luciano è l’idea che lo storico «né per odio né per amicizia» dica o meno determinate cose. Tale concetto si può ben collegare a quanto detto da Tacito: nel proemio delle Historiae, infatti, l’autore dichiara di voler narrare «senza amore né odio», proprio ciò che gli storici del principato non erano riusciti a fare. Tale professione di imparzialità e di obiettività storiografica viene ribadita più tardi nel proemio degli Annales: «Ma le vicende, lieti o tristi, del popolo romano antico sono state tramandate alla memoria da chiari scrittori: e non sono mancati alti ingegni per narrare gli avvenimenti del tempo di Augusto, finché a ciò non li distolse il crescere dell’adulazione. […] Di qui il mio proposito, di riferire nei riguardi di Augusto poche vicende soltanto, le ultime della mia vita; per trattare poi l’impero di Tiberio e di quelli che lo seguirono, senza animosità come senza passionato fervore (sine ira et studio): ché i motivi dell’uno e dell’altra sono lontani dal mio spirito» (I, 2-3).

Infine, all’ultima riga, Luciano delinea l’atteggiamento dello storico come una figura che «sta a fare i conti su cosa penserà questo o quell’altro, ma che dice quanto è accaduto»: si fa ovviamente riferimento ad uno dei principi cardine della politica antica, ovvero la παρρησία. Tale concetto è ricollegabile ad uno dei temi tipici dell’epoca imperiale: la decadenza dell’eloquenza, ripreso non solo nell’opera anonima Περὶ Ὕψους, ma anche nel Dialogus de oratoribus di Tacito. Riguardo questa tematica, vengono solitamente rintracciate due cause: la prima è la posizione politica, poiché si crede che non ci sia più oratoria perché non c’é più libertà di parola (παρρησία), tesi che viene spesso attribuita ad una persona loquens, dato che non si vuole accogliere su di sé la responsabilità di quest’idea, sebbene sia quella che si pensa. In secondo luogo, si fa riferimento alla corruzione morale: la situazione è di “pace”, ma Tacito riconosce che questa pace universale ha un costo, siamo corrotti dalle passioni, e questo a causa della corruzione delle istituzioni (si sostiene in modo più pacato la posizione politica).

Tale tema è stato ripreso anche da Petronio, che accenna alla decadenza educativa, facendo riferimento alle scuole e agli scrittori del passato: il retore crede che la causa risieda nella mancanza di un serio lavoro negli studi, poiché le famiglie e gli scolari scelgono una scorciatoia di una preparazione approssimativa e sommaria, rinunciando agli studi filosofici e alle letture severe (che già per Cicerone erano un elemento essenziale per la formazione del perfetto oratore). D’altro canto, Encolpio crede che la vera causa siano le scuole stesse di retorica, che non educano alla vita; inoltre, è evidente una forte critica nei confronti dello stile asiano nell’ambito educativo, tesi che avvicina il Satyricon all’opera di Quintiliano.

Lorenzo Cardano

Da sempre innamorato degli infiniti modi che l'essere umano ha di esprimere se stesso, il suo entusiasmo e il suo tormento; per questo ho scelto di fare della letteratura la mia strada.

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