Dopo aver trattato i film più controversi di Pasolini, facendo riferimento al testo di Serafino Murri, è ora il momento di vedere come l’intellettuale che più di altri ha criticato le trasformazioni neocapitalistiche e consumistiche abbia rappresentato anche attraverso un modo originale il mito greco.
Il mito greco in Pasolini
Il mito (dal greco μῦϑος «parola, racconto»), un tipo di narrazione che si trasmette oralmente o per iscritto, modificato attraverso ogni possibile forma artistica, vuole dare spiegazioni ai fenomeni che coinvolgono la vita dell’uomo.
La rielaborazione è dunque elemento essenziale del mito, in quanto l’autore che lo utilizza vuole trasmettere un messaggio scomodo di attualità alla società.
Emblematico può essere Euripide, il quale arriva addirittura a modificare in modo netto la tradizione mitologica (es. Elettra che sposa un contadino; la stessa tragedia Ifigenia in Tauride), per poter criticare l’atteggiamento di razionalismo troppo impostato ed orgoglioso, tipico degli ateniesi suoi contemporanei.
In modo analogo, anche Pasolini utilizza il mito per esprimere la sua polemica nei confronti del crescente consumismo dei suoi anni attraverso uno strumento abbastanza originale per la sua epoca: il cinema.
Edipo re (1967)
Come si può evincere da questa intervista, la rappresentazione di Edipo (Franco Citti), tratta dalla tragedia di Sofocle, segue un’impostazione autobiografica e freudiana: dietro il mito si nasconde l’infanzia del regista, il suo modo di vivere la sua esperienza col corpo e i suoi impulsi più elementari.
Il film ripercorre i temi centrali di tutta la produzione cinematografica di Pasolini: la scoperta, la libertà di esprimere il proprio ἔρως e la maternità. Tali elementi si intrecciano e raggiungono una fusione nell’incesto.
Così scrive Serafino Murri nella sua opera Pier Paolo Pasolini:
La figura di Edipo interessa Pasolini non solo per la sua statura tragica, e neppure unicamente per le implicazioni psicoanalitiche che nella nostra cultura il mito tragizzato da Sofocle ha assunto nell’interpretazione freudiana. Pasolini, con questo film, affronta una volta per tutte la ansia autobiografica, il suo personale “complesso di Edipo”; ma l’autobiografismo attraverso il quale il regista riscrive la tragedia è piuttosto il superamento della necessità autobiografica, di quella istanza con cui, tre anni prima, sottoponeva la figura della Madonna a quella della propria madre nel Vangelo secondo Matteo, proiettando il mito del proprio presente sul passato.
Non bisogna dunque dimenticare che, in questi anni in cui Pasolini opera, per gli intellettuali italiani (tra cui anche Moravia) i riferimenti filosofici erano principalmente due: da una parte Marx, come strumento per comprendere i processi della rivoluzione industriale che ha dato origine al capitalismo moderno; dall’altra Freud, che permette di interpretare la sessualità, non più identificandola soltanto con gli organi riproduttori, ma come chiave di lettura dell’intera personalità, per capire l’evoluzione dell’individuo già a partire dall’infanzia (il complesso edipico, appunto, di cui è simbolo il film).
Il prologo è ambientato ai giorni nostri, incentrato sull’infanzia del regista stesso (tant’è vero che son mostrate alcune sue foto da bambino): l’intento è, quindi, di raccontare e superare, da parte di Pasolini, il suo personale complesso di Edipo. Importante, inoltre, è anche l’epilogo contemporaneo, in cui si racconta la sua identità di poeta e, in modo allusivo, il suo amore per i ragazzi.
La differenza principale con il modello dell’Edipo re è la rappresentazione esplicita dell’incesto: in Sofocle – a causa delle convenzioni del teatro greco – le scene troppo violente o troppo esplicite non venivano mai narrate, ma raccontate attraverso un messaggero; in Pasolini, al contrario, troviamo un Edipo che dice “madre” (c’è, quindi, la consapevolezza del legame incestuoso).
Lettera a Silvana Mangano
In una lettera a Silvana Mangano (16 novembre 1968), che era stata interprete di alcuni film pasoliniani come, appunto, Edipo re (1967) e Teorema (1968), Pasolini denuncia l’eccessivo attaccamento ai valori “apollinei” del buon senso e della razionalità più mediocre.
Il suo è, dunque, un invito ad accogliere l’aspetto del dionisiaco, caratteristica che – nel bene e nel male – fa parte della vita di ciascuno di noi. Anche in questo caso, esattamente come nei due film Edipo re e Medea, Pasolini rielabora un mito, o meglio una tragedia: Le Baccanti di Euripide:
Egli (Dioniso) è venuto in forma umana a Tebe per portare amore (ma mica quello sentimentale e benedetto dalle convenzioni!) e invece porta il dissesto e la carneficina. Egli è l’irrazionalità che cangia, insensibilmente e nella più suprema indifferenza, dalla dolcezza all’orrore. Attraverso essa non c’è soluzione di continuità tra il Dio e il Diavolo, tra il bene e il male (Dioniso si trasforma, appunto, insensibilmente e nella più suprema indifferenza, dal giovane pieno di grazia che era al suo primo apparire in un giovane amorale e criminale). Sia come apparizione «benigna» che come apparizione «maledetta», la società, fondata sulla ragione e sul buon senso – che sono il contrario di Dioniso, cioè dell’irrazionalità – non lo comprende. Ma è la sua stessa incomprensione di questa irrazionalità che lo porta irrazionalmente alla rovina (alla più orrenda carneficina mai descritta in un’opera d’arte). […] Quanti Pèntei, nella nostra società, cara Silvana: che prima vogliono tagliare i capelli lunghi del giovane Dio che compare loro e che essi non vogliono riconoscere, e poi finiscono con l’andare a spiare le Menadi, vestiti da donna, e con l’essere dilaniati da loro in una carneficina orrenda (Auschwitz, Dachau, Vietnam, Biafra). I Pèntei italiani sono dei mediocri, dei meschini imbecilli, neanche degni di essere dilaniati dalle Menadi. […] Per ritornare a noi due, noi abbiamo riconosciuto Dioniso: ma con paura, una paura nata nel mondo degli Infelici Molti. E ciò ci dà quella amarezza, che corregge e rende ambigua la felicità che abbiamo capito: rinuncia o impiego sono droghe con cui cerchiamo di riempire il vuoto lasciato da quella metà di felicità che non siamo in grado di godere.
Medea (1968)
Il film si rifà all’omonima tragedia di Euripide, dove la regina barbara ha seguito con i figli Giasone a Corinto; qui viene a sapere che egli intende sposare la figlia del re Creonte e che lei stessa verrà esplulsa dalla città. Offesa nei suoi sentimenti più sinceri, Medea (interpretata dalla magistrale Maria Callas) decide di vendicarsi terribilmente.
Come, però, abbiamo detto, il mito è fatto per essere continuamente cambiato; Pasolini prende la vicenda euripidea e le attribuisce dei connotati della situazione a lui contemporanea.
Cito, di nuovo, le parole dell’opera di Murri:
Come già in Teorema e Porcile, l’amore di Medea non è sentimento che rasserena e tacita la coscienza, ma è conflitto irresolubile tra ciò che si sente e ciò che è ammesso sentire, tra ciò che si è e ciò che si diventa abbandonando la propria identità per qualcun’altro. […] Così, ancora una volta, sotto le mutate spoglie dell’individualismo a cui la società ha obbligato l’uomo-massa, si ripropone il rapporto irrisolto tra l’uomo borghese, di cui Giasone rappresenta l’archetipo eroico, e l’umanità altra, cancellata dalla coscienza borghese, ma pur sempre viva e reale, quella della maga Medea. Quando Medea sogna, sogna il mito di Euripide, visione irrazionale in cui si compie il destino magico dell’umanità. Ma la realtà moderna, quella di una Corinto ricostruita sulla Piazza dei Miracoli di Pisa, ha ben altra consistenza.
Questo elemento di aggiunta è evidente soprattutto nella contrapposizione dei due personaggi: Medea è allegoria di un mondo incontaminato, un’età dell’oro ormai perduta a causa del capitalismo, un’infanzia che – esattamente come per Edipo – è simbolo di libertà di espressione (anche e soprattutto sessuale) e innocenza; Giasone, al contrario, la razionalità cieca del mondo del consumo, con le sue logiche impersonali e mentalità da calcolatore.
Ecco come Pasolini, con parole critiche, rappresenta la condizione dell’uomo moderno, di cui è simbolo Giasone, frutto di una società alienante, il 28 dicembre 1968:
Nel mondo moderno, l’alienazione dovuta al condizionamento della natura è sostituita dall’alienazione dovuta al condizionamento della società: passato il primo momento di euforia (illuminismo, scienza, scienza applicata, comodità, benessere, produzione e consumo) ecco che l’alienato comincia a trovarsi solo con se stesso: egli, come il primitivo, è terrorizzato dall’idea della perdita della propria presenza.
Per concludere, le due pellicole rappresentano sì un ponte con la tradizione, ma in un modo estremamente innovativo: il mito diventa fonte per criticare la decadenza morale e intellettuale dell’epoca del consumismo, rivelando, però, anche interessanti aspetti della biografia dello stesso regista.
Lorenzo Cardano
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