Cosa spinge una ragazza di soli ventun’anni a partorire un romanzo come Frankenstein?
Mary Shelley – Un amore immortale non è solo il biopic dedicato a una delle scrittrici ottocentesche più famose di sempre, ma è un film intenso che scuote nell’intimo.
Dalla fotografia alle musiche, Haifaa al-Mansour regala un compendio di emozioni struggenti. È difficilissimo parlare di questo film perché è un cocktail di sentimenti incorniciati nel Romanticismo ottocentesco più cupo: passione, dolore, invidia, frustrazione, disperazione, avventura, sregolatezza.
Mary Wollstonecraft Godwin (Elle Fanning) viene dipinta con estrema eleganza e senza mai annoiare, un rischio sempre dietro l’angolo quando si realizza un film biografico. L’amore per Percy Bysshe Shelley (Douglas Booth) la condurrà in un vortice tra inferno e paradiso, un’altalena su cui Mary, posata e decisa, si crogiolerà fino alla morte del compagno.
In un secolo intrigante e malinconico scopriamo una giovane donna pronta a tutto pur di restare fedele a se stessa.
Mary è una grande osservatrice dell’animo umano. È delicata, sensibile e allo stesso tempo fiera e decisa. Scrive Frankenstein in uno dei momenti più dolorosi della sua esistenza, mette al mondo la sua creatura dopo aver perso una figlia in carne ed ossa.
Chi è il mostro quindi se non l’essere umano nella sua più sfrenata solitudine? A Mary non interessa che il suo dottore produca un essere perfetto: la scrittrice vuole che il messaggio per il mondo sia realistico e palesi la condizione umana.
Questo attaccamento alla realtà, questo pragmatismo, si scontrerà sempre con l’idealismo romantico (e a tratti davvero insopportabile) di Percy, ma nella lotta tra i due Mary non rinnegherà mai nulla. L’emancipazione di questa donna dalla condizione femminile coeva, sia fuori che dentro le mura di casa, è un battito d’ali veloce e netto: nonostante tutte le brutture della vita Mary va avanti, prosegue per la sua strada consapevole che nulla è perfetto, assolutamente conscia dei limiti di chi la circonda, come anche dei propri.
Determinazione, coraggio, profondità emotiva: questo è il film che sa raccontare una donna geniale, le contraddizioni della vita, il coraggio di sapere accogliere tutti i frutti dell’esistenza.
Mentre vediamo scorrere la galleria dei geni letterari ottocenteschi (compreso Lord Byron) prendiamo davvero atto che non si tratta solo di icone scolastiche, ma di persone con vizi e virtù. Esseri umani che hanno fatto della vita un’esperienza da condividere, nel bene e nel male, e che ancora oggi sanno far vibrare le corde giuste per scatenare quell’empatia di cui spesso i banchi di scuola ci privano quando siamo costretti a studiare determinati argomenti.
Questo film fa venire voglia di leggere Frankenstein per capire a fondo l’animo umano senza avere troppe riserve, senza cercare dei modelli di comportamento, una soluzione o un perché. Il mostro si suicida perché la solitudine e il disprezzo lo hanno condotto nell’abisso della crudeltà più umana che ci sia. Mary usa questa morte fittizia per rinascere dalle proprie sofferenze attuando una catarsi profonda e significativa.
Questo film fa quindi venire voglia di vivere e basta, senza lamentarci troppo delle “inadempienze” di chi ci circonda. La nostra essenza, la nostra voglia di vivere va oltre qualsiasi ingerenza esterna, e anzi prende ispirazione anche e soprattutto da quella per emergere quando meno ce lo aspettiamo.
Alessia Pizzi