Dopo aver visto come il cinema di Pasolini sia stato in grado di trattare la manipolazione della sessualità come strumento di controllo da parte del nuovo sistema consumistico, il regista italiano più controverso di tutti i tempi si è rivelato abilissimo anche nell’interpretare in chiave moderna alcuni dei grandi classici della letteratura mondiale.
Indice
Perché si chiama «trilogia della vita»?
Rispetto al vitalismo plebeo di Accattone, vi è un elemento in più di rottura: il Trecento di Boccaccio o di Chaucer, o il tempo mitico delle Mille e una notte, cancellano completamente dall’orizzonte quella realtà borghese alla quale perfino nella riscrittura della tragedia greca veniva adombrato un posto di grande importanza dialettica, come fonte di abbruttimento della sacralità della vita. Questa umanità che vive in una “età del pane”, di bisogni corporali strettamente necessari che rendono necessaria la sua vita povera e precaria, cancella, con la sua presenza, l’esistenza dell’idiozia consumistica, in cui avviene la sostituzione feticista del godimento reale con il possesso del godimento. Nella cultura aneddotica, popolare, riduzione letteraria della tradizione orale dei tre testi da cui sono tratti i film della Trilogia della vita, non resta alcuna traccia del presente, ma nel regista non c’è neppure nostalgia per il passato: il passato è solo uno strumento di negazione totale del vuoto del presente.
da “Pier Paolo Pasolini” di S. Murri
Negli anni Settanta, Pasolini si concentrerà ancora di più sul tema dell’ἔρως, la sessualità dei singoli individui che voleva essere slegata da qualsiasi principio morale ed è essere totalmente libero ed anarchico nella sua espressione.
Per realizzare il suo obiettivo, Pasolini si serve non di opere minori, ma fa affidamento ai Grandi Classici della letteratura mondiale: Il Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972) e Il fiore delle «Mille e una notte» (1974).
Tale trilogia, che lo stesso Pasolini definisce «della vita», rappresenta la sessualità come istinto vitale da cui bisogna ripartire per pensare in modo nuovo e migliore (ricordiamo che siamo negli anni ’70, la fine della stagione delle grandi utopie) alla funzione dell’uomo, della morale e della società.
Il Decameron (1971)
Tratto dall’omonima opera di Boccaccio, il regista mette in scena nove storie, fra cui anche quella di un allievo di Giotto (interpretato dallo stesso Pasolini) che deve affrescare le pareti della chiesa di Santa Chiara.
Ma il Decameron di Pasolini non è lo stesso di Boccaccio: la capitale linguistica, in questo caso, non è più Firenze, ma la Napoli popolare. Tale scelta è da interpretare come un attacco diretto al politichese del giornalismo televisivo, cioè l’italiano della massificazione.
La struttura della pellicola è rigida: i nove episodi si intrecciano in due episodi guida, ovvero quello di Ser Ciappelletto prima, quello di Giotto poi. Tali episodi sono importanti perché riprendono tematiche tipiche della cinematografia pasoliniana.
Nel primo caso, Ser Ciappelletto ripropone la vicenda di Sant’Infame, un assassino e libertino che, in punto di morte, decide di farsi passare per santo; si riprende, dunque, il tema della santità non come elemento di bigotta religiosità, ma come impossibilità di distinguere la mistificazione dalla verità.
Nell’episodio di Giotto, al contrario, viene messo in evidenza il rapporto tra arte, vita e sogno in modo autobiografico. L'”artista Pasolini” vive nel suo sogno, da cui poi trarrà ispirazione figurativa, immaginando, in modo consono all’epoca del Trecento, la rappresentazione del Paradiso e dell’Inferno.
Ma cosa accade dietro le righe, nel mondo in cui si aggirano questi personaggi beffardi e liberi, pieni della loro vita? Molti episodi si concludono con la morte (Ciappelletto, TIngoccio, Lisabetta), o hanno a che fare (Andreuccio), per quanto in maniera blasfema o irriverente.
Con questa frase, Murri mette in evidenza come la morte sia un elemento onniprensente in ogni situazione, per quanto non sia mai accettata per quello che è: da una parte, Lisabella tiene la testa dell’amante ucciso nel vaso di basilico; dall’altra Tingoccio torna per descrivere al fratello le angosce dell’aldilà, ma poi lo libera sessualmente rivelandogli che nessuno terrà conto dei suoi peccati carnali; per non parlare poi della vicenda di Ciappelletto di cui sopra.
I racconti di Canterbury (1972)
Tratto dall’opera omonima di Chaucer, scrittore medievale inglese; la storia che tiene insieme tutte le altre è il viaggio dello stesso Chaucer (interpretato da Pasolini) per andare ad onorare, insieme ad altri pellegrini, la tomba del santo arcivescovo di Canterbury Thomas Becket.
Per ingannare il tempo, i viaggiatori raccontano storie ed aneddoti; dei ventiquattro racconti di Chaucer, Pasolini ne sceglie otto, dandone una rappresentazione originale.
Rispetto al Decameron la forma evolutiva si fa volutamente più “sporca” e sperimentale (l’uso della cinepresa a mano diventa quasi un must) e i sentimenti diventano chiari sui volti dei personaggi (al contrario dell’ambiguità dell’espressione facciale di Maria Callas in Medea).
Il contenuto narrato, se paragonato a quello del Decameron, si estremizza ancora di più nella fusione, ormai indistinguibile, di sesso-amore-morte, nel recupero sempre più insistente del disgustoso e dello sconcio.
Il fiore delle «Mille e una notte» (1974)
Il film riprende la celebre raccolta di novelle arabe che assunse la sua forma canonica nel corso del Quattrocento; la trama consiste nell’impresa di un giovane alla ricerca della fanciulla amata, che poi si ritrova sotto mentite spoglie maschili. Tuttavia, all’interno della storia principale, ne sono contenute altre quattro.
Ultimo – ma, a mio avviso, il migliore – film della trilogia, Il fiore delle «Mille e una notte» porta un’atmosfera di straordinaria serenità. Come scrive lo stesso Murri:
Il sesso delle Mille e una notte è puro, liberato dai rapporti di possesso reciproco, ma anche dalla fissazione narcissica e masturbatoria del play-boy o della play-girl occidentali: questa libertà sessuale, agli antipodi della teoria della liberazione sessuale (coatta nella sua istanza protestataria), è l’emblema di una purezza interiore, di una cristallinità dei sentimenti che strappa il sesso dell’ambito dell’osceno.
In ogni storia rappresentata, il sesso non è morboso, ma l’atto si realizza senza inibizioni culturali: l’atto sessuale è inteso come dono, mezzo di scambio, bene prezioso.
«LA VERITÀ NON STA SOLO IN SOGNO, MA IN MOLTI SOGNI.»
Così un servitore, ad un tratto, dice alla principessa Dunja, sconvolta da un sogno premonitore; tale frase è indicativa di tutto il contesto onirico e magico in cui sono avvolte le vicende. Il filo rosso, che caratterizza tutte le storie del libro, è la tendenza all’utopia; come se, in un certo senso, la materia artistica iniziasse a diventare sempre più autonoma.
Per concludere, i tre film qui proposti vogliono sicuramente essere emblema della capacità – tipica di Pasolini – di rendere attuali opere lontane, mostrandone il messaggio importante che queste si portano dietro.
Tuttavia, non è da sottovalutare la difficoltà con cui esse sono strutturate: si consiglia, perciò, una visione attenta ed informata delle pellicole che, ad uno spettatore ingenuo, potrebbero non risultare del tutto accessibili.
Lorenzo Cardano
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