– Ma com’è tu’ moglie?
– È comprensiva …basta menaje
Titolo originale: Brutti, sporchi e cattivi
Regista: Ettore Scola
Soggetto e sceneggiatura: Ruggero Maccari, Ettore Scola
Cast Principale: Nino Manfredi, Linda Moretti, Maria Luisa Santelli, Maria Bosco, Franco Merli
Nazione: Italia
Anno: 1976
Per Brutti, sporchi e cattivi Ettore Scola vinse il Prix per la migliore regia al Festival di Cannes del 1976, dove fu presentato in concorso.
Non mancarono quindi le critiche attente e positive, né il successo di pubblico, visto che si tratta di una commedia in cui si ride, benché molto amaramente.
Il tema di Brutti, sporchi e cattivi è la povertà, argomento mai raccontato così crudamente e senza sconti in un film di Scola.
La pellicola è ambientata e girata tra le baracche di Monte Ciocci, borgata della periferia ovest di Roma, una zona che all’epoca in cui fu girato il film era davvero occupata da baracche in cui vivevano emigrati e operai dei cantieri di Via Baldo degli Ubaldi e Via Boccea.
Già le panoramiche che indugiano tra la vista sulla maestosa cupola di San Pietro e quella dei palazzi residenziali nuovi dei quartieri confinanti per poi spostarsi sulle baracche e le strade sterrate senza marciapiedi della borgata creano un senso di disagio, che renderà difficile ridere spensieratamente.
La trama racconta della numerosissima famiglia Mazzatella, formata da circa 25 persone, che vivono sotto lo stesso tetto di una baracca.
Il film è corale, ma il protagonista è il capo clan Giacinto, interpretato da un gigantesco Nino Manfredi. Un uomo dispotico, spesso ubriaco, che tratta moglie, figli, nipoti e affini come bestie. Vive nella paura costante – anche fondata – che qualcuno di loro possa rubargli il milione di lire che ha ottenuto dall’assicurazione come risarcimento per aver perso un occhio colpito da un getto di calce viva.
Tutti i componenti della famiglia si danno da fare con qualche lavoro mal pagato e sfruttato per sopravvivere. Il reddito familiare è costituito per lo più dalla pensione della nonna Antonecchia (interpretata dall’attore Giovanni Rovini). Una volta incassata, la somma mensile viene immediatamente spartita tra tutti i nipoti, a differenza della piccola ricchezza di Giacinto, che lui non vuole spartire con nessuno e che nasconde sempre in posti diversi.
In famiglia nessuno lo sopporta, fino al punto di organizzarsi per ucciderlo. Ad istigare tutti è la moglie Matilde (Linda Moretti), esasperata dalla decisione di portare la sua amante, la giovane prostituta Iside (Maria Luisa Santella), ad abitare con loro dormendo nello stesso letto.
Giacinto riesce a sopravvivere all’avvelenamento e decide di vendicarsi, prima appiccando il fuoco di notte alla baracca, poi vendendola ad una famiglia di sfollati.
Brutti, sporchi cattivi descrive impietosamente una realtà fatta di povertà ed emarginazione sociale.
Ettore Scola, firmando anche la sceneggiatura di questa commedia, ha descritto senza fronzoli la povertà. Il degrado in cui vivono i personaggi è materiale, ma anche morale ed esistenziale. La sopravvivenza è il loro unico obiettivo quotidiano.
In Brutti, sporchi e cattivi non troviamo alcun tentativo di analisi delle cause della povertà ed emarginazione narrate, non solo perché è e vuole essere una commedia dallo stile grottesco, ma anche perché gli sceneggiatori evidentemente vogliono dire altro.
La famiglia Mazzatella vive in una promiscuità che non si può che definire degradata e degradante. Nessuna privacy, nessuna giusta distanza tra le persone, parenti e affini. Le molestie sessuali alle donne della famiglia e a qualunque altra donna entri nella casa (vedasi Iside, l’amante di Giacinto) sono all’ordine del giorno. Gli uomini hanno un’incontinenza sessuale che le donne sono (o si sentono) costrette a soddisfare, quando non sono proprio oggetto di violenza a casa e a lavoro.
La lotta per la sopravvivenza fa sì che gli istinti più bassi guidino le persone, dal ricordarsi della nonna solo il giorno del ritiro della pensione, fino al tentativo di omicidio o di strage.
Uomini e donne vorrebbero il riscatto ma ogni tentativo è debole e vano. Ogni sentimento positivo si affaccia per un attimo e velocemente viene sostituito dalla disperazione e dal cinismo.
Non c’è una visione poetica della povertà qui, fatta eccezione per le scene con i bambini i cui primi piani sono gli unici momenti del film a suscitare davvero tenerezza, insieme alle inquadrature in cui compare la giovanissima nipote di Giacinto che ogni mattina si alza per prima per andare a prendere l’acqua alla fontanella della borgata. È lei ad aprire e a chiudere il film in una narrazione quasi ciclica, che rappresenta anche la ciclicità di un destino familiare, refrattario al cambiamento.
Viene spontaneo tentare il paragone con il neorealista Miracolo a Milano, girato esattamente 25 anni.
Nel film di Vittorio De Sica si respira l’aria di rinnovamento e di speranza che doveva portare la ricostruzione dopo la Seconda Guerra Mondiale. Nella baraccopoli milanese di De Sica c’è voglia di riscatto ed entusiasmo per difendere i propri sogni e combattere lo sfruttamento. Lì i poveri entrano in contrasto con i ricchi e hanno la speranza di poter uscire dalla propria condizione. Le descrizioni sono poetiche, la povertà alberga nei personaggi insieme alla bontà. Ma serve comunque un miracolo, una magia per trasformare la speranza in salvezza o riscatto.
Nella baraccopoli romana di Scola, invece, i poveri sono in conflitto con altri poveri e di speranza ce n’è poca e viene soffocata subito. Quei poveri non sono buoni e per loro non si prova compassione.
Alberto Moravia, infatti, osservò come Brutti, sporchi e cattivi avesse assorbito l’eredità del Neorealismo, creando però “un nuovo estetismo in accordo coi tempi…: quello del “brutto”, dello “sporco” e del “cattivo” e soffermandosi sulla “ricerca di un effetto che colpisca piuttosto che di un tratto che commuova”.
L’ironia della sceneggiatura e la bravura degli attori.
Nella descrizione di tanta miseria anche umana c’è l’ironia in cui Scola è maestro indiscusso, ma si ride tra l’amarezza e il fastidio che la condotta dei personaggi suscitano.
Non mancano picchi di genialità nella sceneggiatura a sorprendere chi guarda il film per la prima volta. Basti ricordare solo la scena del coro dei baraccati che intona quasi professionalmente l’aria del “Va, pensiero” diretto dall’oste, che a fine prove gli versa il vino, come fosse un premio. Uno dei pochi momenti in cui la sensibilità umana si prende il suo spazio nel contesto che abbiamo descritto.
La critica sociale, a cui gli sceneggiatori non si sottraggono, è lasciata soprattutto alle immagini.
Il Cupolone di san Pietro, che ogni tanto compare, stridendo con la sua magnificenza, come sfondo alle vicende raccontate, sembra incombere su quei baraccati, quasi a rappresentare una Roma dove si vive meglio, ma lontana e irraggiungibile per i Mazzatella, ma anche un potere (politico? Religioso?) impotente di fronte a quelle miserie che non sa risolvere.
In un film corale come questo è fondamentale un buon amalgama del cast.
Nino Manfredi nel ruolo di Giacinto è magnifico. Girò circondato da veri baraccati e spesso fu costretto ad improvvisare le battute. Fa ridere ma soprattutto si fa odiare dal pubblico.
Intorno a lui, però, c’è un gruppo coeso di caratteristi, bravissimi proprio nel caratterizzare il proprio personaggio e a interagire sulla scena occupando ognuno il proprio posto.
In ciò si vede anche la maestria di Ettore Scola, in una prova di regia molto difficile, nel dirigere molte persone in scene quasi sempre caotiche.
Le immagini di Scola sono accompagnate anche in questo caso (come in C’eravamo tanto amati) dalle belle musiche di Armando Trovajoli.
3 motivi per guardare il film:
- per l’interpretazione perfetta di Nino Manfredi;
- perché è uno dei film migliori di Ettore Scola;
- perché è uno spaccato realistico dell’emarginazione sociale dell’epoca e non solo.
Quando vedere il film:
in una serata in cui volete vedere una commedia all’italiana firmata da un maestro del cinema.
Stefania Fiducia
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