Titolo originale: Conte d’hiver
Regia: Éric Rohmer
Soggetto e sceneggiatura: Éric Rohmer
Cast principale: Charlotte Véry, Frédéric van den Driessche, Michel Voletti, Hervé Furic, Ava Loraschi
Nazione: Francia
Anno: 1992
Si definiva un «cineasta passato alla critica» Éric Rohmer. Forse per quell’inafferrabile ‘passatismo’, o forse per la capacità di indagare sempre la stessa materia, la più ardua e imprendibile: i sentimenti umani. Non che i compagni di strada – i “giovani turchi” dei Cahiers du Cinèma degli anni Cinquanta – non abbiano colto il grumo emotivo, il confine tra amicizia e amore che orienta i rapporti di coppia e spesso ne fa un terreno paludoso, instabile. Rohmer però va oltre, o meglio: disseziona sempre lo stesso punto.
Serge Daney distingueva i “bravi” registi dai “grandi” sulla base delle idee, sull’eccesso o la morigeratezza della stesse in ottica di messa in analisi, di rappresentazione variata, compiuta, lasciata a decantare pazientemente, senza mai deflagrare. Così è Éric Rohmer, un autore da tema unico, i cui film ruotano attorno alle incertezze sentimentali, ai percorsi di innamoramento, di amicizia, di resistenza relazionale. Il tutto prima che prenda forma, quando le sensazioni sono ancora un groviglio indefinito e i personaggi impacciati, entità collettive colte all’acme della “banalità”, in balia di un caso che può essere coincidenza o miracolo – il solo motore di un’esistenza piana.
I Racconti delle quattro stagioni
Dopo la serie dei Racconti morali e quella delle Commedie e proverbi, il regista francese elabora un ciclo più breve, ispirato alle Quattro stagioni e aperto da Racconto di primavera (1990), forse il meno riuscito. Non è una svolta né un cambio di passo – o di registro –, sebbene la traccia narrativa rallenti e si essicchi fino a coincidere con il nudo intrecciarsi dei rapporti tra i personaggi, visibilmente più intricato pur nell’estrema levità. Sicuramente Rohmer sfugge – come scrive Giancarlo Zappoli nella monografia dedicatagli – «a tutti i facili e abusati parallelismi che possano ricondurre alle vecchie stampe che campeggiavano in passato in alcune abitazioni e che illustravano le “stagioni della vita”». Non ha velleità didascaliche bensì il desiderio – tanto umano quanto anacronistico, fuori moda – di analizzare le impasse dei suoi protagonisti, il punto di coagulazione attorno a nevrosi minime, agli impacci del quotidiano.
Il Conte d’hiver (Racconto d’inverno, 1992) si apre in tal senso con un’estate che nulla a che fare con la gioventù della protagonista ed è piuttosto un umore, specchio di una solarità perduta che si riflette nella luce, elemento essenziale – parlante – del cinema di Rohmer. Qui l’atmosfera è inedita: gente anonima, le banlieu parigine, il métro affollato, il mercato. Al centro Félice (Charlotte Véry), parrucchiera dall’immaginario semplice, i cui ricordi scorrono al ritmo di soap-opera cozzando con il grigiore della sua vita, a indicare come l’inverno sia una stagione dell’anima. I flash luminosi, estivi del prologo rimandano all’incontro con il cuoco Charles (Frédéric Van Den Driesche), grande amore perduto a causa di un lapsus, quando al momento di salutarsi lei indica Courbevoie come residenza, in luogo dell’effettiva Levallois.
La fede e la meraviglia
Sembra impossibile, fastidiosamente inverosimile, eppure Racconto d’inverno altro non è il lento avvicinamento di Félice a Charles, il racconto placido, rettilineo, di un happy end da favola. Il senso di meraviglia emerge da più elementi: il sogno d’amore ingenuo, quasi senza speranza; il caso che orienta i destini (grande costante dell’opera rohmeriana); le illuminazioni che costellano quest’avventura fatata. La prima, fondamentale, è quella all’origine del titolo, ovvero l’identificazione di Félicie con quanto narrato nel Racconto d’inverno di Shakespeare.
È la scena finale a innescare il trasporto; qui la regina Ermione, presentata agli astanti come una splendida statua, comincia a muoversi e a parlare fra lo stupore del re Leonte, suo marito, e della figlia. Per la giovane si tratta di una rivelazione, la conferma che la speranza – meglio, la fede – può “svegliare” il passato e dunque far rivivere la fotografia dell’amato Charles.
Sogno o realtà?
La sequenza è emblematica perché interamente giocata sul rapporto verità/finzione, già indagato da Rohmer ne Il segno del leone (1962) e ne Il raggio verde (1986). Qui l’aspetto recitativo, di messa in scena, si svela nella scelta di far rivolgere la Paulina shakespeariana contemporaneamente al pubblico in sala (nel teatro del film) e allo spettatore: «Se leggeste questa storia in un libro pensereste che è una fiaba, ma invece è vera». Dinnanzi a Racconto d’inverno si avverte la stessa sensazione, ma il verosimile procede dai dettagli, dallo svolgersi di un quotidiano comune e per nulla fiabesco. È Félicie, semmai, a mescolare le carte, e non a caso Loïc (Hervé Furic), uno dei due uomini tra cui si barcamena, reagisce alla rappresentazione con un misto di stizza e razionalità.
La distanza tra i due emerge anche da un’altra scena, quella in cui il ragazzo ragiona dottamente di massimi sistemi con una coppia di amici mentre lei appare estranea, persa in un’idea di reincarnazione che deriva dalle favole. Sospesa tra Loïc – bibliotecario e intellettuale, troppo delicato per i suoi gusti – e Maxence (Michel Voletti), il parrucchiere spiccio dal quale lavora, Félicie non sa decidere fin quando il caso non interviene; per seguire la figlioletta entra in una cattedrale, si siede in silenzio («è la mia maniera di pregare») e «vede quello che deve fare». Abbandona i due contendenti e torna a Parigi con la bambina: «Il mio cuore appartiene a Charles, perciò non posso dare il mio cuore a nessun altro».
La scommessa di Pascal
È qui, in questa scelta impulsiva, quasi infantile, che sta il fulcro dell’opera di Rohmer. Ancora una volta, come in La mia notte con Maud (1969), egli torna a giocare con la scommessa di Pascal («Se l’anima non è immortale, il crederlo va vivere meglio che se non ci si credesse»), non chiama in causa Dio ma il destino, sebbene il carattere religioso emerga da vari dettagli, come il luogo dell’illuminazione (la cappella) o la sacralità della regina Ermione. Félicie scommette, dall’inizio alla fine: preferisce Maxence a Loïc perché detesta il parlare intellettuale, salvo poi mollare tutto e cercare Charles, che forse non troverà mai.
«Una vita piena di speranze vale più di delle altre», dichiara lei stessa. E allora interviene il caso, la Provvidenza divina che orienta i destini e connette i lapsus facendo incontrare i due amanti su un bus, in un idillio da fotoromanzo che sa di posticcio e commuove, oltre ogni ragionevole dubbio.
Ma è una scelta, questa, o una “premonizione”? Al di là dell’happy end smaccato, il pianto della figlia di Félice e Charles sembra dirci che nulla è poi scontato. «Piango di gioia», ripete meccanicamente, come ad ammettere il dubbio, l’incertezza, l’idea che la madre sia nuovamente in balia del suo destino.
Tre motivi per vedere il film
- La levità dell’impianto
La capacità di indagare i sentimenti più sfumati - La sequenza iniziale, carica di colori e umori
Quando vedere il film
Una domenica pomeriggio, dopo aver visto almeno uno dei Racconti morali.
Ginevra Amadio
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