Influenza, memoria e invenzione in suggestioni del passato

Influenza

La danza è un’arte che riesce facilmente ad unirsi ad un’altra; tanto che si può parlare anche di “influenza”.

Pensiamo all’opera, dove musica e danza sono spesso la coppia perfetta; o al trascorso cinema muto, dove la danza si univa alla musica e alle immagini in movimento dando una magica idea di novità tecnologica.

Un’altra arte con cui la danza si sposa bene è il teatro. Ciò che un monologo non riesce ad esprimere, spesso risulta più ‘eloquente’ in una coreografia o in una serie di movimenti. La coreografa olandese Floor Robert ha diretto e interpretato, su questa scia, ‘Influenza’ :  primo spettacolo del collettivo inQuanto teatro presso lo spazio de La Pelanda al Macro, in occasione del Romaeuropa Festival 2017. Influenza

In un ambiente oscuro, con solo sei palloncini legati ad un nastro, una ragazza entra e dietro questi, si mette a cantare una specie di filastrocca in una lingua straniera (probabilmente olandese).

Ad unirsi a lei una figura maschile, coperta di una pelliccia e dalla pelle verdognola; e un inquietante uomo-carta, senza volto e dai movimenti lenti e inquietanti. Loro, una musica costante e una serie di coregorafie ci portano in un mondo alternativo, dove ricordi, desideri e paure si uniscono. Un viaggio. Un’esistenza onirica dove non c’è un luogo stabilito, ma quelle suggerite dalle suggestioni, dove un bosco e lo spazio infinito si susseguono senza logica. Una dimensione dove alla fine ciò che trascorso, ciò che esiste e quel che mai è stato o sarà riescono comunque a dare….un’influenza.

Floor Robert, con questa produzione di 40 minuti, vuole raccontarci lo spirito del gruppo inQuanto teatro.

Racconta infatti in un’intervista, in merito alla produzione Influenza:

“(…) In questo lavoro chiedo solamente allo spettatore di abbandonare lo sguardo e di farsi trasportare dalle emozioni. Di non cercare significati, preconcetti o altre narrazioni, se non la propria interpretazione. Per me il lavoro proviene dall’infanzia, mi interessa una capacità di stare sulla scena priva di tecniche, trasparente e leggera. Senza sovrastrutture, esercizi di stile, maniera o bravure. È come inseguire qualche ricordo dell’infanzia, si. Ma non è così fondamentale che anche lo spettatore faccia questo viaggio indietro nel tempo. A me interessa di più che possa apprezzare qualcosa che assomiglia ad un sogno, un sogno dolce, collettivo, surreale e a tratti inquietante. Che possa sorprendersi e alleggerire il cuore”

Il pubblico però è pericoloso se non lo si direziona.

In questo mondo ossessionato dai social, telefonini sempre accesi e un’informazione che non conosce più la pazienza della ricerca; è impossiible chiedere ad un pubblico un’attenzione estrema che non sia cullata da qualcosa.

La musica presente nella performance è troppo leggera e i movimenti troppo lenti: è impossiibile riuscire a seguire con facilità senza distrarsi. Una ricerca onirica, con personalità non definite e una danza dall’andamento lento non aiutano certo una migliore concentrazione.

Il risultato? Non si comprende.

L’impegno dei ragazzi è evidente, l’essenzialità della scenografia permetterebbe un’universalità di rappresentazione; ma è ciò che si vuole trasmettere. Non si può chiedere al pubblico di cavarsela da solo: è come andare a un ristorante, dire agli invitati di portarsi da mangiare, ma chiedere di pagare il conto.

Ogni metodo è sano, ogni situazione è perfetta e ogni linguaggio è giusto se il pubblico capisce lo stesso messaggio. Quello portato dai inQuanto teatro è un progetto in divenire: la strada è lunga e sicuramente riusciranno nel loro intento. Ora ancora no. 2 stelle su 6.

 

Francesco Fario

Francesco Fario
Attore e regista teatrale, si laurea in Lettere Moderne a La Sapienza per la triennale, poi alla magistrale a TorVergata in Editoria e Giornalismo. Dopo il mondo del Cinema e del Teatro, adora leggere e scrivere: un pigro saccentone, insomma! Con Culturamente, ha creato la rubrica podcast "Backstage"

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