Nel 1988, al Teatro Sistina di Roma, andò in scena per la prima volta la commedia “A che servono gli uomini?“, con una squadra d’eccezione: Iaia Fiastri alla sceneggiatura; Giorgio Gaber alle musiche e, in scena, personalità come Ombretta Colli, Marisa Merlini, Pino Quartullo e Stefano Santospago.
Una storia curiosa, degna della produzione firmata Garinei e Giovannini, dove la protagonista Teodolinda (detta Teo) vive serena il suo stato di single. Vive da sola, con un lavoro che le piace e fiera della sua assenza di relazioni con personaggi del sesso opposto. Manca una cosa però per rendere la sua vita perfetta: un figlio.
Le cose cambiano quando scopre che il suo vicino di casa, il timido e impacciato Gianni Padovan, è un ricercatore presso un centro di inseminazione artificiale. Con la scusa di saperne di più, si reca al laboratorio del vicino e decide di…auto-iniettarsi una fiala.
Tutto segue un naturale percorso, finché la svampita Samantha, che lavora con Teo, non le insinua una serie di dubbi riguardo “l’ereditarietà” genetica. Nasce così la voglia, da parte di Teo, di scoprire qualcosa sul padre del bambino e cerca di farselo dire da Gianni, il quale non può per il celebre giuramento di Ippocrate. Nel discorso però, Gianni si lascia sfuggire l’informazione che una volta anche lui ha “donato” presso il suo centro. Teo allora gioca la carta della curiosità: e se il padre fosse lui?
Si viene a scoprire che il donatore in realtà è un certo Osvaldo Menicucci, donnaiolo, mammone e senza la benché minima voglia di farsi una famiglia.
In una serie di strane coincidenze, tutti i personaggi s’incontreranno, mentre Teodolinda proseguirà il suo piano, che non avrà solo a che vedere con il bambino…
Il testo di Iaia Fiastri è di nuovo in scena, fino al 6 gennaio, al Teatro Quirino di Roma, con la regia di Lina Wertmuller e con protagonista Nancy Brilli.
Premessa. Ogni spettacolo, per essere degno di questo nome, deve avere delle sue originalità. Come già scrissi una volta per Aggiungi un posto a tavola (sempre una commedia di Garinei e Giovannini e firmata Iaia Fiastri), non si può vedere uno spettacolo pensando che copi uno di quelli visti in passato. Mancherebbe di rispetto al passato e al presente. Bisogna essere preparati a dei cambiamenti.
Aggiungi un posto a tavola, quel sentimento che ferma…il diluvio
Dipende però da quali.
Non possiamo criticare certamente la Maestra Wertmuller: è una Dea e il suo Oscar alla carriera ne ha dato un piccolissimo esempio. Però alcune scelte sono molto opinabili. Lo spettacolo è poco fedele, quasi per niente, all’opera originale. Possiamo giustificare il fatto che ,(per quanto se ne sappia) dal punto si vista professionale, è la seconda messa in scena di questo copione, il che rende, purtroppo, inevitabile fare riferimento alla prima edizione.
Partiamo dalla sceneggiatura, diversa da quella di Iaia Fiastri.
I tempi cambiano e affrontare un tema come quello dell’inseminazione artificiale, oggi come ieri, è un sinonimo di coraggio, per me: coraggio applaudito. Anche Iaia Fiastri sarebbe stata d’accordo. È giusto cambiare qualche battuta, incalzare il ritmo, togliere qualche banalità che il nuovo pubblico 2.0 potrebbe non capire. La trama però è molto diversa e, se non si è visto una precedente versione, ci si perde facilmente.
La scenografia iniziale, per esempio, ci porta in casa di Teo. L’opera dell’88 era al Sistina, con i suoi palchi girevoli. Qua invece la casa di Teo e Gianni è separata da due porte vicine…e basta. Le due scene si svolgono quasi contemporaneamente e gli spazi, a volte, sono usati tanto per una scena singola quanto per quelle da coppia: una mossa che può distrarre. Discutibile ai limiti del dibattito la scelta del finale diverso. Troppo “buonista”, cambia completamente il senso della commedia: pieno disaccordo.
Altra discutibilità è il cambio del cast.
Viene, infatti, aggiunta la figura di un escort uomo (interpretato da Nicola d’Ortona). È una curiosa presenza che crea dei momenti anche di ilarità: esempio calzante, lo spogliarsi davanti a Fioretta Mari. Un personaggio fiero ma impacciato, capace di muoversi tranquillamente: niente quindi da ridire all’attore, che fa bene ciò che gli viene chiesto. Non si capisce però la sua importanza ai fini della storia e alcune scene che coinvolgono una figura come d’Ortona (con un curriculum di tutto rispetto, forse sprecato per un personaggio come questo) risultano noiose e inutili. Si pensi al ballo con Samantha: ci mostra sì le capacità dei due attori, ma porta lo spettatore a non pensare alla trama.
Altra discussione: le musiche.
Stiamo parlando di Gaber e quindi qualcuno penserà che voglia difendere un personalità importante del panorama della canzone italiana. Non è però così. Come detto all’inizio, ogni spettacolo si deve adeguare: le musiche non sono da meno. Non solo però ai tempi, ma agli stessi interpreti: chiunque dirige o recita lo sa! Qua però ci sono delle scelte che andrebbero analizzate. Alcune canzoni sono state tagliate, come quella iniziale o quella del laboratorio, ma per queste si può soprassedere: non sono importanti.
Perché, però, tagliare proprio quella che dà il nome allo spettacolo?
Ha un inizio quasi in stile rap, cambiato: interessante, se non addirittura molto curioso e da ascoltare.
Poi…il taglio! Nessuna reprise, se non dialogata. Perché? Per inserire la “Torpedo blu”, che nello spettacolo non è presente? Non se ne capiscono le motivazioni
Parliamo ora del cast.
Di d’Ortona abbiamo già detto. Daniele Antonini è a sua agio nei panni di Menicucci. Si muove bene, è intonato e ci dona una figura leggermente più coatta, ma ci sta. Stessa cosa per Giulia Gallone. Il pubblico la vede nei panni della svampita Samantha e ci mostra la sua esperienza sul palco: i suoi applausi sono meritati.
Nancy Brilli non è proprio da podio e la cosa mi dispiace.
Sono cresciuto vedendo alcuni spettacoli teatrali, registrati dai miei genitori: tra questi c’era Se il tempo fosse un gambero (sempre firmata da Iaia Fiastri) con la Brilli come protagonista. Sapere che c’era una commedia musicale con lei in scena, mi ha portato di corsa in platea. La sua Teodolinda è molto femminile, ma non trasmette molto la voglia e il desiderio di rimanere da sola. Sorride e giudica poco con lo sguardo. È…troppo buona. Inoltre in alcuni balli è risultata fuori tempo e leggermente sotto-tono nel canto.
Apprezzate, invece, le performance di Igi Maggiorin e Fioretta Mari. Diverse, fresche, anche dialettali. Il primo interpreta un impacciatissimo Padovan, con un curioso accento veneto. Con la stessa voce e tonalità, regge bene anche nel canto e ci dà una perfetta idea di un Padovan, per niente simile a uno originale, ma che dona al pubblico comunque lo stesso messaggio. Identica cosa per Fioretta Mari. Una mamma sicula, capace di attirare gli applausi del pubblico senza mai dire una parola di troppo. Personaggio divertente da copione, ma lei si diverte: il pubblico lo sente e gioca con lei.
Uno spettacolo purtroppo non bello come potrebbe essere, sia per gli ingredienti che per il copione. 2 stelle su 5. Peccato. Veramente.
Francesco Fario