La prima puntata della fiction della Rai Il nome della Rosa aveva lasciato qualche dubbio. La seconda quelle perplessità le aveva decisamente rafforzate. Ma è dopo il terzo episodio che determinate convinzioni si trasformano in granitiche certezze.
Il nome della rosa, la serie, continua a deludere.
Questa volta non c’erano in concomitanza le temutissime partite di calcio.
Nessuna Juventus a strappare potenziali telespettatori, ma solo, purtroppo, L’isola dei famosi e, principalmente, la disaffezione verso un prodotto che, al netto di qualsiasi commento, non entusiasma.
L’emorragia di ascolti, evidente già in occasione della seconda puntata, quando dai 6.501.000 dell’esordio, si era passati a 4.727.000, è continuata.
Lunedì scorso a vedere la terza puntata dell’atteso colossal Rai sono stati 3.894.000, 800.000 spettatori in meno, numeri decisamente importanti.
Si dirà che gli ascolti non sono sinonimo di cattiva qualità ma, per il mondo televisivo rappresentano, pur sempre, un dato non del tutto trascurabile.
Giunta quasi alla fine, manca solo una puntata che andrà in onda il prossimo 25 marzo, la celebrata serie tv del Il nome della rosa continua a lasciare perplessi.
Le ombre intraviste nella prima attesissima puntata e non fugate nella successiva, rimangono e anzi si rafforzano dopo la visione della terza.
Il progetto televisivo rimane ambizioso ma deludente.
Si fa fatica a rimanere davanti alla TV e gli sbadigli, onestamente, non si contano.
La lentezza, che si sperava potesse svanire dopo gli impacci iniziali, non solo rimane ma caratterizza la serie televisiva stessa.
La terza puntata è la peggiore di quelle fino ad ora andate in onda.
L’iniziale sensazione di un prodotto troppo “romanzato” e piegato ai gusti del mercato, si è acuita.
La distanza dal capolavoro di Umberto Eco, che nelle prime due puntate si era già palesata, diventa nel corso di questa terza puntata evidentissima.
Così come la volontà del regista e degli sceneggiatori di percorrere “vie parallele.”
D’accordo non seguire pedissequamente il libro, tanto meno il film di Annaud, si tratta, pur sempre di una fiction, ma esagerare appare eccessivo.
In tal senso la storia fra il novizio Adso e l’Occitana è la cifra di questa smisurata distanza.
Troppo “romantica”, esageratamente stucchevole, poco credibile nel contesto di tutto il progetto narrativo.
Della “bestialità” dell’atto, che tanto sapientemente Eco aveva descritto nel suo libro, non c’è davvero nulla.
Così come poco risalto viene dato al travaglio interiore del novizio benedettino, perfettamente captato dal silenzioso Guglielmo.
Discutibili sono anche le ricorrenti divagazioni storiche.
Se nella prima puntata erano sembrate ben inserite nel tessuto narrativo, nella terza puntata trasbordano, con il risultato di sviare completamente lo spettatore.
Ma andiamo nello specifico di questo penultimo episodio della fiction.
Non convince per nulla, la resa della dotta disputa che contrappone francescani e delegati papali sull’annosa questione del rapporto fra povertà e chiesa.
Quella che è stata magistralmente raccontata da Eco in pagine filosoficamente e teologicamente memorabili e superbamente descritta nel film di Jean Jaques Annaud, qui viene derubricata a poco più di una gazzarra da mercato, con tanto di parolacce e scazzottata finale.
Ancor meno persuade il confronto sulla serissima questione del riso che, nonostante l’ottima interpretazione di Turturro che, nei panni di Guglielmo, sottolinea come il ridere sia una prerogativa del genere umano, viene inopportunamente ridimensionata, mentre avrebbe meritato un giusto e opportuno spazio.
Ancora una volta delude il buon Stefano Fresi che, invece, sta ottenendo meritati consensi nel bel film diretto da Walter Veltroni.
Spiace dirlo ma l’attore romano continua a non convincere nei panni del mefistofelico Salvatore e questa volta non per lo schiacciante confronto con il geniale Ron Perlman del film.
La scena in cui il Salvatore televisivo cerca di spiegare a un perplesso Adso il perché abbia nel sacco un gatto nero, ricorda più il Fracchia di Paolo Villaggio, che il babelico frate ex dolciniano.
Ma non solo spine, per fortuna.
Conferma la sua bravura Fabrizio Bentivoglio.
Da applausi l’intensissimo dialogo fra il suo Remigio da Varagine e frate Guglielmo da Baskerville.
La caratterizzazione del personaggio, così diversa da quella del film, è ancora una volta pienamente convincente.
Una scelta condivisibile, che offre una lettura diversa a un personaggio comunque non marginale.
Conferme anche per Turturro e Rupert Everett.
Quest’ultimo è totalmente calato nel personaggio del temibilissimo Bernardo Gui, specie quando pone il suo sguardo inquisitore sul timoroso ed esitante Remigio.
Rimane, ormai, da vedere solo la quarta puntata ma la sensazione è che difficilmente questo ultimo appuntamento potrà spostare di molto un giudizio che, al netto di tutto, rimane complessivamente negativo.
Il desiderio di rivedere e in fretta il capolavoro di Jean Jaques Annaud, mentre scorrono i titoli di coda di questa terza puntata, si fa sempre più forte, anzi decisamente insopprimibile.
Ad maiora.
Testo: Maurizio Carvigno
Foto: Fabio Lovino su concessione della Rai