Nel catalogo serie tv di Amazon Prime Video fanno capolino alcune produzioni italiane.
Tra queste mi ha subito incuriosito Made in Italy, un viaggio nella moda italiana in otto episodi.
La prima cosa che risulta subito evidente è l’emulazione dei toni cinematografici del “Diavolo Veste Prada”. La forastica Rita Pasini e l’ingenua Irene Mastrangelo fanno eco ai passi di Miranda Priestly e Andrea Sachs in versione italica ed anni ’70.
Un omaggio (?) ad un film cult non necessario. Un progetto ambizioso che poteva garantire un’originalità tematica differente visto che nessuno sul piccolo schermo si era spinto ad approfondire la nascita del Made in Italy, dei grandi nomi che hanno fatto la storia della moda.
Grandezza progettuale sminuita dai dialoghi monotoni e prevedibili nella serie Amazon.
La nascita della grande moda italiana nella Milano degli anni Settanta viene raccontata attraverso la storia di Irene. Una giovane, non solo molto brava ma anche molto fortunata, che del tutto inaspettatamente si troverà nel vortice colorato del fashion system.
È una Milano pullulante di stimoli quella rappresentata in questa serie tv. Una città fulcro di quello che sarà il cambiamento e la storia che tutti oggi conosciamo.
Made in Italy ha un’avida volontà di toccare tutti i temi caldi degli anni Settanta. Dalle lotte sociali, alla rivoluzione sessuale, dal terrorismo ai problemi genitoriali. Il rischio è stato quello di depauperare un fervido racconto.
L’obiettivo di avvicinare al mondo della moda un pubblico più ampio è un progetto lodevole, ma non per questo bisogna semplificare i contenuti in maniera estrema.
La rivista “Appeal” è la chiave di lettura per raccontare l’evoluzione della moda e di concepirla.
Lo spazio dedicato ai grandi maestri è un’ode alla creatività targata Italia.
Armani, Valentino, Krizia, Versace, Missoni, Albini, Fiorucci, Curiel, Ferrè: i grandi creativi vengono celebrati nell’opera Made in Italy.
Il racconto della moda italiana purtroppo però è lo sfondo di questa commedia romantica che a tratti risulta mediocre.
Le interpretazioni di Margherita Buy e di Ninni Bruschetta sono le migliori. Riescono a dare un tono di eccellenza anche quando la sceneggiatura vacilla. Due personaggi agli antipodi che riescono a rappresentare in pieno il contesto sociale dell’epoca.

Al centro di Made in Italy rimane comunque la Moda italiana degli anni ’70. Quella in cui si passa dall’Haute Couture al Prêt-à-Porter, in cui Armani fonda il suo impero proponendo l’immagine di una donna potente e padrona di sé stessa. In cui Versace scandalizza con le sue donne super sensuali e un manager visionario come Beppe Modenese intuisce che, per sfidare il predominio francese, i litigiosi italiani devono fare gruppo.
Questa parte del racconto è quella che chi si appresta a vedere una serie tv del genere vorrebbe venisse sviluppata maggiormente. Conoscere e approfondire le biografie dei grandi nomi attraverso la mentalità di quegli anni.
Lo sguardo curioso della giovane giornalista Irene e del suo mentore, la caporedattrice Rita Pasini, ci invitano ad entrare nell’incantato mondo della moda e nella sua storia “ancestrale”. Tuttavia, mi auguro che qualora venga messa in produzione la seconda serie e resa disponibile su Amazon, ci si possa concentrare di più sulle sorgenti del fashion system e molto meno sulle improbabili love story con il seduttore di turno, come da manuale, Marco Bocci, e la differenza sostanziale tra blu polvere e blu lapislazzulo, già padroneggiata in altre pellicole.
Alessia Aleo
[…] molte serie television hanno voluto raccontare il mondo degli stilisti, come Made in Italy ed Emily in Paris, la prima più documentaristica e storica, racconta l’inizio della moda […]