La verità sul caso Harry Quebert nasce per la tv, è tv.
Joël Dicker, abilissimo enfant prodige della letteratura di consumo, lo ha sempre dichiarato. Al pari dell’editore a cui nel suo testo affida il compito di banchettare sopra i cadaveri dilaniati dalla cronaca nera.
“Avete presente Homeland, la serie tv? Vedi una puntata, poi un’altra, poi cominci a fare delle stupidaggini tipo vederne quattro di fila di notte così il giorno dopo non riesci a lavorare… La mia ambizione era ottenere lo stesso risultato con un libro.”
Scommessa vinta, giacché dal momento della sua uscita il romanzone thriller-giallo ha catalizzato l’attenzione di mezzo mondo – fagocitato non si sa bene come da una storia carica di cliché e citazioni al limite del plagio.
Eppure la formula funziona.
L’autore svizzero, allora figlio ventisettenne dell’american appeal, ha saputo coniugare suspense, morbosità e scenari idilliaco-tempestosi in un mix di innocente abitudine che fa a pezzi l’estetica della ricezione di Jauss, ormai masticata e rigettata dalle generazioni Y e Z.
La verità sul caso Harry Quebert è una rassicurante strizzata d’occhi ai Segreti di Twin Peaks, conditi dal melanconico richiamo a un amore perduto e proibito, attualizzazione neanche troppo velata del nabokoviano Lolita rievocato persino nella computazione sfacciata dei nomi: Lo – la; No – la. E poi, per i più raffinati, c’è il Philip Roth della Macchia umana scientemente unito al ben più prosaico Karate Kid, che dei rapporti maestro-allievo è il riferimento archetipico dei nati negli anni Ottanta.
Dicker è una macchina da guerra (di quelle che portano soldi) e sa bene che per confezionare un page turner – nell’epoca del post-edonismo – non occorre nascondere le proprie intenzioni. La gente ama la genuina sfrontatezza, e (invidiosamente) ammira il talento del self-made guy dalla faccia pulita e la penna fluente.
Non c’è elemento fuori posto nell’incredibile successo de La verità sul caso Harry Quebert. Nessun accorgimento è lasciato al caso. Dalla citazione in epigrafe alla copertina dell’Éditions de Fallois, che racchiude il tesoro di 670 pagine dentro uno scrigno sormontato da Portrait of Orleans di Edward Hopper.
“Quando abbiamo chiesto i diritti al Fine Arts Museums of San Francisco – afferma Dicker, manager di se stesso – forse abbiamo colto qualcosa dello spirito del tempo. Quel quadro mi sembrava perfetto, evoca la stessa atmosfera del libro. Quell’America del New England che tutti hanno in mente”.
La stessa, desolata America che Jean-Jacques Annaud rende protagonista silenziosa della sua serie (su Sky Atlantic). Una cartolina chiaro-scura di mare e folti boschi, con solo una timida pioggia a disturbare il panorama. Tutti gli stereotipi del romanzo di Dicker sono trasferiti sullo schermo come in un calco animato, fedele riproposizione di uno schema già nato con le caratteristiche filmiche, o meglio ancora serial-televisive.
Ma è una convenzionalità che cattura, atterrisce e stupisce; un progetto perfetto, capace di abbattere le difese dello spettatore più puro.
Si pensa in grande, del resto, in operazioni del genere. Abbassare l’asticella è vietato, pena l’insuccesso della prossima Verità, del prossimo Caso, della nuova – succulenta – Scomparsa da cospicui diritti. E così Annaud, già garanzia di qualità, chiama a raccolta Ron Perlman (attore feticcio, vecchia volpe delle buone riuscite) e Virginia Madsen, rispettivamente nei ruoli dell’editore cinico arruffa soldi e della locandiera della cittadina, spietata gestrice del fast-food e dei destini altrui.
Accanto a essi – quasi in veste di coprotagonista tanto è alto il livello del parterre attoriale – si colloca l’ormai ex dottor Shepherd Patrick Dempsey, calato nel ruolo bello, maledetto e penoso di Harry Quebert, docente e autore di successo nel cui giardino viene rinvenuto il cadavere della donna amata nel 1975, a trent’anni di età contro i quindici di lei.
È un intreccio torbido e scontato, che si fa pruriginoso man mano che si scava nella vita della giovane. Indagata rimestando nel fondo del maschilismo e del bigottismo, della perversione voyeur e dei pensieri indicibili. Dicker – prima di Annaud – sa che funziona e vi calca la mano, proiettando spudoratamente se stesso nel personaggio di Marcus Goldman (Ben Schnetzer), alias “il formidabile”, pupillo di Quebert che ne ha raccolto il testimone. Autore di successo dalle donne e soldi facili, che firma un contratto milionario per raccontare una «miniera d’oro» fatta di «sesso, abusi, violenze su minore».
È il prezzo del successo, il sentiero già tracciato nel manuale del perfetto autore di best seller.
A muovere Marcus è un fine nobile – la volontà di scagionare il suo mentore – e nel farlo, oltre a garantirsi un posto nel Paradiso degli intrepidi, ottiene il ristabilimento dell’alterato ordine di Aurora, fittizia cittadina di un incontaminato Maine da utilizzare come palcoscenico di morte almeno finché lo spettatore saprà riconoscerla così come l’ha sempre vista (immaginata): il tempo di un’estate. I continui flashback tra il 1975 e il 2008 restituiscono infatti la sensazione di un’atmosfera inalterata, resa mobile dai fili grigi nei capelli degli abitanti e dalle scritte ingiallite di diner e motel. Per il resto lo sfondo è intatto, ed è una scelta rassicurante così come ogni (in)atteso colpo di scena messo in atto: prevedibile eppure agognato, decifrabile e al contempo atteso.
Ma in fondo è la struttura stessa del giallo a essere rassicurante.
Il processo di rammendo che in essa si sviluppa e ristabilisce un equilibrio – rattoppa un buco nella trama. La soluzione che restituisce il normale andamento al tempo, e fa combaciare le tessere disperse di un mosaico. Dicker – e Annaud con lui – ci mette solo un pizzico di pepe in più, la salsa piccante che copre i soliti sapori dando l’illusione di star gustando un piatto etnico che però sa di casa. È la ricetta di ogni prodotto dal ritorno positivo, mai nascosto dietro il velo di una presunta e proclamata diversità di intenti.
Ed è qui che sta la forza dell’operazione Harry Quebert. Non c’è affettazione, né ansia di mostrarsi altro da sé. I personaggi rispondono a una logica rodata, già nota, incredibilmente efficace perché sperimentata. Li si segue nelle azioni tagliate loro addosso, confezionate secondo un codice condiviso dall’autore e dal lettore, dal regista e dallo spettatore. Nola (Kristine Froseth) dietro la faccia pulita nasconde segreti e tormenti interiori. Jenny Quin (Tessa Mossey nei flashback, poi Victoria Clark) sogna da reginetta ma finisce a friggere patatine come la mamma. Marcus Goldman, sfrontatezza e sorrisi, insegue la chimera del successo per occultare la sua ingenua insicurezza.
Poi c’è Harry Quebert, che inganna tutti – finanche se stesso.
E qui no, l’orizzonte d’attesa del fruitore non è più teneramente blandito. Vi è turbamento, forse persino qualche sussulto. Jean-Jacques Annaud lo rende bene, lasciando lo spazio per una contenuta e ricercata commozione che nel romanzo di Dicker è assente, complice la diversità del mezzo e lo stile scarno, ridotto all’osso. Il cerchio del successo si chiude allora con un tratto inatteso. Quando entrano in gioco le emozioni la macchina si inceppa e diventa umana, esce dai margini e si compie nell’imperfezione. Dalla scrittura alla tv, dalla tv alla vita.
Ginevra Amadio
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