Venezia 2019 Day 3: l’accusa di Polanski e le urla per Kristen Stewart

kristen stewart a venezia 2019

Ebbene sì, questo è il giorno di Kristen Stewart a Venezia 2019.

Il mainstream del giorno precedente non si è esaurito vedendo la solita incredibile rassegna di presenze al festival. Ma c’è da ammettere che i fan della Stewart sono cresciuti (e lei si è ormai allontanata da una certa tipologia di pellicole commerciali) e non si vedono più migliaia di ragazzini urlanti ad attenderla. I tempi cambiano per tutti.

Lei fa parlare il suo lavoro, ed è davvero bravissima in Seberg, presentato fuori concorso. Nel film interpreta Jean Seberg, la famosa attrice degli anni ’60, inimitabile col suo capello corto biondissimo, la cui carriera fu rovinata dalle indagini dell’FBI per la sua vicinanza alle Pantere Nere. Il film è un godibile e teso biopic, che onestamente oltre alla bravura dell’attrice non offre molto (affidandosi anche a parecchi cliché che danno poca forza all’analisi di quegli anni tumultuosi) ma scorre bene e si lascia seguire. Certamente, è un riuscito omaggio alla carriera di un talento spezzato troppo presto e per motivi infamanti.

In concorso, invece, è passato il film di Roman Polanski. Non lui, naturalmente, per le solite vicissitudini legali di cui tanto si parla ogni volta, e di cui tanto si sta dibattendo in questi giorni spesso a sproposito. C’è da ammettere però che è anche difficile fare altro, perché Polanski presenta con J’Accuse l’indagine per scagionare una persona innocente: è impossibile non pensare che abbia scelto tale soggetto rivedendosi nel caso. Sceglie però, saggiamente, di non centrare la narrazione sulla vittima, e nel racconto del celebre “Affare Dreyfus” non è protagonista quest’ultimo, ma il militare che prima lo accusò e poi fece di tutto per provarne l’innocenza.

Il film è certamente un prodotto ben girato e confezionato, non si discute il talento di Polanski e il carisma del cast tutto francese. Delude perché non approfondisce mai ciò che mostra, e si limite alla ricostruzione storica (seppur bellissima e tesissima) laddove potrebbe esplorare i tormenti dei personaggi e di quella vicenda che ha ancora sinistri echi odierni. Un cinema classico che funziona sempre, ma a cui manca quella spinta in più.

Alti e bassi li hanno offerti anche le sezioni collaterali del Festival.

Dalla sezione Giornate degli Autori, il francese Un Monde Plus Grande ha lasciato davvero a desiderare. Storia di un’elaborazione del lutto trattata con l’infatuazione per lo spiritualismo, è un piatto e goffo film sugli sciamani mascherato da dramma umano. Sciatto, a tratti persino insulso, spreca il talento della protagonista Cecile De France costretta a girare a vuoto nelle scene involontariamente comiche di possessione spirituale.

Invece, per la Settimana della Critica, il cileno Il Principe non potrà passare inosservato. Prison movie animalesco, primitivo, assolutamente esplicito nelle scene di sesso, sottace la debolezza umana nel marasma degli istinti. Un prodotto sicuramente forte e controverso, duro da vedere e digerire, ma che capisce l’essenza della vita carceraria e la riporta senza filtri. Una conferma, oltretutto, della brillantezza e del coraggio del nascente cinema sudamericano. Preciso, quello cileno in particolar modo.

Primi tre giorni di festival all’insegna di una qualità che, a parte vette già prevedibili in partenza (Marriage Story), stenta ad ingranare. Ma come sempre è un piacere scoprire passioni e linguaggi così profondi proveniente da svariate parti del mondo. Questo è il vero senso del cinema.

Emanuele D’Aniello

Malato di cinema, divoratore di serie tv, aspirante critico cinematografico.

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