Se c’è una cosa che riesce a Laszlo Nemes, è creare un’atmosfera di orrore mista a eleganza. Se c’è una cosa che interessa a Laszlo Nemes, sono i momenti storici che segnano la fine dell’umanità.
Le due cose spesso combaciano, lo abbiamo visto nel suo film d’esordio Il Figlio di Saul, lo vediamo ora nel suo nuovo Sunset. Due film quasi gemelli, si potrebbe dire. Se il primo ci gettava nel dramma dei campi di concentramento con un approccio e un punto di vista quasi rivoluzionario, ora siamo nella Budapest alla vigilia della Prima Guerra Mondiale.
Per quasi due ore e mezza Sunset indaga, seguendo ossessivamente la sua protagonisti con intensi primi piani che occupano tutto il frame, oppure con riprese in soggettiva che trasformano la sua visuale nella nostra, su come una civiltà all’apice possa crollare improvvisamente. Nemes, attraverso la sua protagonista che cerca di riscoprire e riprendere la propria identità, cerca al tempo stesso di cogliere l’identità nazionale di un impero, quello austro-ungarico, ormai divenuto una Babele al collasso.
Il tono è quello del thriller, come lo era nel suo precedente film, e la ricerca ci porta in territori sempre più inesplorati e viscidi, che perdono l’eleganza dei primi minuti in un crescendo scomposto di anarchia e fragilità.
Sono i momenti disordinati, paradossalmente per un regista così composto, quelli in cui Sunset davvero trionfa.
Il problema però, oltre l’eccessiva durata non giustificata dalla vicenda e dell’approccio, è la rigidità di fondo. Nemes è un favoloso regista tecnico, e riesce davvero a farci entrare nella testa della sua protagonista. Ma, pur seguendola letteralmente da vicino per tutto il tempo, non riesce a infondere quel necessario calore umano oltre un senso di paura e dubbio. Manca il contatto empatico con la vicenda, si percepisce la chiara rigidità di chi pensa, prima di tutto, a posizionare bene la cinepresa.
Indubbiamente Sunset dà il meglio quando arrivano quei momenti di inesplicabile caos. Un disordine umano, e violento, che sprigionano le forze primordiale dell’uomo e del puro cinema. Nemes ha ancora il controllo pieno del mezzo, perché appunto è davvero un regista eccezionale e i suoi lunghi piani sequenza lasciano a bocca aperta, ma qui infonde anche un’energia che ha pochi eguali. Un peccato che non segua sempre gli istinti, un peccato soprattutto dopo Il Figlio di Saul, che praticamente era tutto istinti. Un regista non può ripetersi al secondo film, è chiaro, ma può e anzi deve capire quali sono i suoi punti di forza, i suoi tratti distintivi, per creare un proprio stile e cinema. Nemes ha voluto cambiare troppo pelle, e subito, perdendo un po’ di sana follia.
Il talento è comunque intatto, e Sunset è un film di grande valore. L’appuntamento al definitivo salto di qualità per il giovane regista ungherese è, sicuramente, solo rimandato.
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Emanuele D’Aniello
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