Nel settembre 1997 Rob Richardson e sua moglie Sibil Fox rapinano una banca. Lui viene condannato a 60 anni di prigione da scontare ad Angola, il Louisiana State Penitentiary, uno degli istituti più sanguinosi degli States. Lei patteggia a tre anni e mezzo.
La vita di Fox Rich
Con la regia di Garrett Bradley, il film documentario racconta la vita di Fox Rich (è così che si farà chiamare) e della sua famiglia americana composta da 6 figli, fondendo materiale d’archivio e filmati privati.
Il film ha debuttato al Sundance Film Festival nel 2020 ed è stato disponibile gratuitamente per una settimana su Amazon Prime Video e su You Tube per la sua candidatura agli Oscar 2021. Ha già collezionato una serie di premi fra cui il Gotham Award, il National Board of Review, il National Society of Film Critics, il New York Film Critics Circle, Los Angeles Film Critics Association, il Black Film Critics Circle e il Best Director award for US Documentary Competition.
“Eravamo disperati – dice la Fox – e le persone disperate fanno cose disperate”.
E così, dopo il tentativo di mantenere a fatica aperto un negozio di HIP-HOP, rapinano la Grambling Federal Credit Union, un furto di cinquemila dollari per i quali Fox Rich riceve una pena patteggiando a tre anni e mezzo di reclusione, Rob una di sessanta.
Dinanzi a quei sessant’anni di ingiusta reclusione inizia la ribellione di Fox, che si rivolge alle “due milioni di persone vittime dell’incarcerazione di persone povere e di colore”. Rob viene liberato nel 2018 grazie al Governatore John Bel Edwards, dopo più di vent’anni di galera.
La Fox, in una sorta di vlog in bianco e nero, accorcia le distanze con il marito filmando di tutto: feste di compleanno, il primo giorno di scuola, le lauree dei figli maggiori, gli auguri per la feste del papà fatti da un telefono. Nelle sue riprese amatoriali si nota facilmente lo scorrere del tempo in base all’utilizzo dei mezzi usati: dalle vecchie cineprese, all’ iphone, passando per le risoluzioni delle immagini stesse. Bradley prende queste riprese di Fox Rich e le monta senza rispettare un ordine cronologico quasi a voler sembrare volutamente confusionaria in alcuni punti, quasi a voler assomigliare alla vita di questa famiglia.
Queste riprese vengono poi intervallate alle scene moderne e professionali del film, fatte anch’esse in bianco e nero. Ad accompagnare le immagini le composizioni di Jamieson Shaw e Edwin Montgomery e le registrazione degli anni Sessanta dei brani di Emahoy Tsegué-Maryam Guèbrou.
“Il tempo è ciò che te ne fai”.
Il filo conduttore del film documentario è, come dice il titolo stesso, il tempo. Un tempo lento che potrebbe a tratti risultare pesante in alcune scene, che a volte sembra non trascorrere mai nei lunghi silenzi delle telefonate con il giudice, e che a volte sembra trascorrere troppo in fretta per ritrovarsi, un giorno con i figli già grandi, maggiorenni e laureati.
Una sorta di parallelismo tra passato e presente e tra la vita di Robert Richardons e dello scorrere veloce di quella dei figli.
A prescindere dall’ essere d’accordo o meno con le proteste e le battaglie da lei svolte, Sibil Fox è una grande donna e una grande narratrice, ispirata da sua madre, una donna combattente che le ha insegnato il potere della parola e della voce.
A lei la riconoscenza dell’aver insegnato a sua figlia che il sogno americano può essere reale sono se lo si vuole davvero. A Sibil la riconoscenza di una grande forza nel tener unita la famiglia e nel portare avanti i valori nei quali crede.
Sibil Fox si definisce un’abolizionista. Una donna che vuole veder implodere un sistema penitenziario che distrugge e piega vite umane in virtù di una legge che a volte non è uguale per tutti, un gioco di potere in cui a perdere è (quasi) sempre chi è povero o chi è nero.
Ma “la miglior vendetta è il successo”.
Così Sibil Fox ripete costantemente a se stessa ogni giorno, pronta a farsi coraggio e a regalarsi pazienza perché a ragionare con certe logiche mette a dura prova la tua sanità mentale.
Questo film è un documentario di un viaggio personale di Sibil ma anche di tante donne che lottano contro un sistema carcerario fallace.
Un film che merita di essere visto per il trasporto emotivo e il coinvolgimento ma anche per sensibilizzare la popolazione ad uno spaccato di realtà che esiste e che ha sempre poca visibilità.
L’Angola è la più grande prigione di massima sicurezza degli Stati Uniti con 6.300 prigionieri.
Nata come una piantagione dove gli schiavi tagliavano le canne da zucchero, alla fine dell’ottocento diviene un luogo di detenzione per poi esser trasformata, nel 1901, in una prigione di stato.
Secondo il regolamento attuale, i detenuti possono incontrare le loro famiglie 7 ore al mese, non possono avere rapporti intimi con i coniugi, le telefonate vengono interrotte bruscamente allo scadere del tempo a disposizione. Queste solo alcune delle restrizioni e delle privazioni che i detenuti subiscono per tutta la durata della pena.
Viene facile domandarsi quanto siano poco tutelati e rispettati i diritti umani e quanta strada ci sia ancora da fare.
Esattamente un anno fa ne parlavo qui con Salvatore Ferraro. Occorre sempre sensibilizzare certe tematiche e Garrett Bradley riesce benissimo a unire argomenti quali il razzismo, la supremazia bianca, i diritti dei detenuti, e la schiavitù ma anche l’amore, la religione, la tradizione e il perdono in ottanta minuti di film.
La parte più bella, a mio avviso, è la scena finale.. un rewind in pieno stile anno ’90 in cui il nastro degli ultimi vent’anni della famiglia Richardson, si riavvolge. Quasi a volerci dire che il tempo non è mai perso e se lo si vuole, permettetemi il gioco di parole, si è sempre in tempo per recuperarlo.
Se avesse vinto l’Oscar sarebbe la prima regista nera di un documentario a ottenerlo.
Definito dal LA TIMES come “Una straziante storia di amore e ingiustizia, è uno dei grandi documentari del 2020”, un film che vale assolutamente la pena di essere visto.
Francesca Sorge