Richard Jewell, il nuovo inno a eroi per caso di Clint Eastwood

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Nella carriera di Clint Eastwood, forse Richard Jewell è un caso raro. Esistono infatti quei registi la cui presenza si sente nei loro film, spesso più del dovuto. Esempi ovvi, quando vediamo un film di Tarantino ci accorgiamo benissimo che è un film di Tarantino; quando vediamo un film di Woody Allen ci accorgiamo che avrebbe potuto farlo così solo Allen e basta.

Eastwood non è mai stato in questa categoria. Il suo stile molto classico, silenzioso, reticente e onesto, ha reso la sua presenza certamente riconoscibile, ma mai invadente. Mai si è messo lui davanti al film, neppure quando ha recitato in prima persona (persino in Gran Torino, uno dei suoi lavori più personali, non era ritratto l’Eastwood uomo ma l’Eastwood personaggio).

Invece adesso in Richard Jewell l’impronta del suo autore è nettissima, nel bene e nel male.

Nel bene, perché Richard Jewell è sicuramente un buon film, un coinvolgente e sincero ritratto personale di un uomo schiacciato dalle ingiustizie. Eastwood continua nel ruolo che ha preso nell’ultimo decennio, ovvero il cantore di un eroismo americano silenzioso e privo di retorica, lontano dal patriottismo epico ma vicino alle gesta semplici di uomini buoni che fanno ciò che fanno non per eccezionalità, ma per compiere gesti altruisti. Storie vere di eroi per caso che non cercano le prime pagine, le luci dei riflettori, ma fare il loro dovere e tornare a casa.

Non a caso, Richard Jewell segue la medesima traiettoria narrativa di Sully, con protagonisti messi in mezzo dal sistema e trasformati in vittime dei loro stessi gesti altruisti. L’ottimismo di fondo di Eastwood, il candore con cui esalta la vita semplice e tradizionale, le persone buone e un po’ ingenue, cresciute in contesti tradizionali, lo avvicina a una specie di Frank Capra riveduto e aggiornato a valori conservatori. Se negli anni del cinema di Capra l’approdo era lo stare insieme, la società, qui la società è il nemico che si mette di mezzo all’individuo e alle sue libertà.

E qui arriva, appunto, l’impronta nel male. Perché Eastwood non racconta solo una bella storia personale di eroismo, che ispira a commuove. Ma cerca anche di politicizzarla nel presente. Talvolta in maniera subliminale, con qualche stoccata nei dialoghi comunque gestibile. Talvolta in maniera più netta, dipingendo un sistema corrotto (stampa e FBI che si nutrono a vicenda, guarda caso proprio i “nemici” di Trump adesso) che schiaccia il singolo povero cittadino. Altre volte in maniera piuttosto problematica,  nel ritratto monodimensionale dei personaggi di Jon Hamm e Olivia Wilde, soprattutto quest’ultima.

Tutto ciò è pienamente legittimo, sia ben chiaro. Il pensiero dell’autore è giusto sia un film, ma diventa un problema perché Eastwood non riesce a inserirlo in maniera sommessa. La sua regia è ormai stanca, affaticata, evidentemente anche un po’ annoiata, e non solo per l’età. Il film manca di guizzi, di scene che possano valorizzare veramente gli attori, e l’intera storia va avanti col pilota automatico.

Possiamo anche perdonarlo a una leggenda che potrebbe stare in pensione e sarebbe comunque già annoverato tra i più grandi a prescindere. Dopotutto, Richard Jewell non è certo uno dei suoi migliori film, ma inquadrato nel ciclo recente dei suoi lavori acquista un senso estremamente significativo.

 

Emanuele D’Aniello

Emanuele DAniello
Malato di cinema, divoratore di serie tv, aspirante critico cinematografico.

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