Midsommar, lasciarsi un giorno in Svezia

Midsommar

L’opera seconda è sempre più roboante, imperfetta ma più strabiliante dell’opera prima: Midsommar non scappa da tale assioma. E conferma che la voce di Ari Aster è qui per rimanere e farsi sentire in maniera assolutamente decisa.

Dopotutto, quando lo scorso anno parlai di Hereditary definendolo “un horror che si prende troppo sul serio” e usai la frase come un complimento, non potevo certo immaginare che, un anno esatto dopo, Aster sarebbe tornato con un film horror ancora più pretenzioso, costringendomi a dare nuovamente, con sorpresa, a tale definizione un connotato positivo.

Non si può negare infatti che Ari Aster si piaccia molto. Vedere i 140 minuti di Midsommar è letteralmente vedere un regista che si specchia nella propria bravura. Ma, sorprendentemente, riesce a non farlo in modo presuntuoso o fine a se stesso, bensì seguendo sempre una precisa visione estetica (molto estetica) e profondamente tematica del proprio cinema. Un cinema appena nato, ancora in evoluzione, ma già segnatamente distinguibile.

Aster, seppur con altre libertà formali e espressive rispetto al suo esordio, prosegue un percorso sul dolore. Se in Hereditary (e il prologo di Midsommar sembra letteralmente continuare quel film, esserne davvero una costola) il lutto era la chiave, in questo nuovo film il lutto c’è ancora ma diventa tassello di un mosaico di sofferenze ancora più incontrollabile: dolore personale, incomunicabilità relazione, scontro di genere, il regista prendere tutto il calderone e lo offre allo spettatore senza mai frenare, senza mai filtrare.

Con le lunghe inquadrature alla Haneke, con il fascino per il paganesimo che ricorda The Wicker Man, con la viscerale voglia di far soffrire che pare rubata a Von Trier, la visione di Aster non cerca e non si ispira all’horror di puro genere, ma ad una autorialità dolorosa tutta europea. Questi connotati permettono al regista una libertà prima mentale e poi espressiva paragonabile a niente nella sua categoria.

Vedere Midsommar, pertanto, non è vedere un horror per spaventarsi e divertirsi con lo spavento. Vedere Midsommar è soffrire, accettare il sovvertimento delle regole narrative basilari, e lasciarsi trasportare in un viaggio lisergico di sofferenze e immagini indelebilmente orrorifiche.

Con la luce sparata al massimo livello, sfruttando solo le ore diurne (primo tradimento al genere), Aster ci invita a seguire un percorso intriso di angoscia e dolore. Il film non è minimamente interessato alla trama o alla prevedibilità dei colpi di scena, anzi, più sono anticipati e ovvi, più è efficace il lavoro fatto traccia.

Aster non parte dalla storia, ma dalle immagini per arrivare alle viscere degli spettatori. Ogni inquadratura è ricca di cose che succedono, ogni fotogramma è un affresco di stupore spesso ripugnante. Le immagini che ogni tanto fluttuano e si piegano, per replicare l’effetto allucinogeno, accompagnano la visione nei meandri della psiche più fragile.

Prima ancora di essere un horror Midsommar è un trip, a tratti grottesco, a tratti fortemente inquietante, che entra nella testa invece di colpire solo gli occhi. Un momento non fa paura immediatamente, ma fa paura pochi secondi dopo, quando si perpetua sullo schermo o rimane così impresso da ripensarci subito.

Sicuramente il compiacimento estetico alla lunga può diventare un problema. E innegabilmente Midsommar ha proprio il difetto di essere molto prolisso, di indugiare in momenti efficaci che alla lunga finiscono per perdersi. Ma ha una voce ipnotica così brutale e sicura da lasciare un segno inevitabile. E profondo.

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Emanuele D’Aniello

Malato di cinema, divoratore di serie tv, aspirante critico cinematografico.

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