Green Book, una strana coppia a spasso contro i pregiudizi

Green Book

Nell’America socialmente divisa degli anni ’60, il Green Book era un libretto verde nel quale erano segnati i locali degli stati del sud in cui agli afroamericani era consigliato o sconsigliato andare. Un’involontaria mappa dell’intolleranza, insomma. Un vademecum anche per i bianchi, per far capire loro cosa non essere.

Adesso, Green Book è il titolo di un film ma, in un certo senso, è ancora un vademecum, una mappa per capire come far contento il pubblico, cosa fargli e non fargli vedere, come farlo sentire e cosa fargli provare.

La sostanza di Green Book, infatti, è quella di essere un film iper-classico, appartenente quasi all’Hollywood di 50 anni fa, che ha avuto qualche erede sparso nel tempo (A Spasso con Daisy, The Help i primi esempi che vengono in mente), e di essere anche un film enormemente costruito, una sagace tessitura a puntino per non scaldare troppo su un tema attualissimo – il razzismo – ma farlo comunque assorbire come lezione sociale e personale.

L’essere molto classico e tremendamente costruito sono, al tempo stesso, pregi e difetti del film. Pregi, perché raramente al giorno d’oggi si vede un film così ben riuscito diretto al grande pubblico. Difficilmente non si ride e poi riflette con Green Book, non si rimane conquistati dalla parabola dei personaggi, non si lascia la sala provando qualcosa. Difetti, perché cercare di piacere a tutti, inevitabilmente, vuol dire che inevitabilmente è poco approfondito. Il tema del razzismo è al servizio dello sviluppo emotivo del rapporto tra i due protagonisti. Una fugace finestra sull’omosessualità è aperta ma subito richiusa, per farla digerire rapidamente e nasconderla. La convenzionalità della messa in scena sposta tutta l’attenzione dal piano sociale a quello personale.

La forza di Green Book, che supera pregi e difetti, la ritroviamo nell’interpretazione e nella chimica dei due protagonisti.

Viggo Mortensen e Mahershala Alì sono semplicemente due uragani lasciati senza guinzaglio. La storia frena spesso ogni possibilità di introspezione, ma il carisma e il talento dei due permette di incidere e fare tanto col poco a disposizione.

Mortensen è un vulcano d’energia, il suo dinamismo riempie lo schermo. Se il ritratto che fa dell’italoamericano non evita la macchietta e il senso di già visto in decine di film e serie tv, è comunque pazzesco il senso di immedesimazione con cui si appropria del personaggio, e pian piano durante il film l’attore completamente sparisce e pare di vedere davanti davvero un emigrato italiano. Alì, come suo solito, sottace il dolore e riesce a caricare di emozione ogni espressione o gesto. Il suo è un personaggio fantastico (un personaggio che, probabilmente, avrebbe meritato un film serio e tutto suo), un nero che si sente più bianco e dribbla le proprie radici in risposta all’intolleranza subita dalla sua gente, trasferendo tutta la sua rabbia nei tasti del pianoforte. Guardare Alì suonare, o ricevere l’ennesima umiliazioni da bianchi razzisti, è una trasfusione di intensità di rara potenza.

L’ambientazione, i temi ed i personaggi di Green Book sono così interessanti che dispiace vederli in un film, complessivamente, così poco interessante. D’altro canto, però, è anche impossibile voler male a Green Book, perché il lavoro che fa sull’animo umano, talvolta silenzioso, talvolta fragoroso come una risata, è innegabile.

Un film che appartiene ad un’altra epoca, ad un altro cinema. Decidere se rimpiangerlo o no, vedendo dove va il mondo adesso, è una scelta puramente personale.

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Emanuele D’Aniello

Malato di cinema, divoratore di serie tv, aspirante critico cinematografico.

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